UN FILM DEL TUTTO DIVERSO. SPIELBERG E WEST SIDE STORY.
Milano, 15 gennaio 2022. Di Luca Cerchiari - Università di Milano - IULM
Uno dei giganti della cinematografia statunitense, Steven Spielberg, ha già superato, e comprensibilmente, il nostro autorevole Paolo Sorrentino nella corsa verso gli Oscar.
Per la sua ultima, anzi penultima fatica, il lodatissimo autore di Schindler’s List (e dell’almeno altrettanto riuscito Amistad, 1999, dedicato alla tratta degli afro-americani) si è misurato con il musical, argomento nelle corde di almeno una mezza dozzina di suoi esimi colleghi, da Brian De Palma a Richard Altman.
Puntando in alto, cioè omaggiando, ma anche osando sfidare, in un certo senso, il capolavoro della contemporaneità, quel West Side Story che nel 1961 vide affermare un team agguerritissimo e coeso di giovani autori, tra i quali spiccavano, senza nulla togliere al talento di Stephen Sondheim come paroliere, e a quello di Arthur Laurents come librettista-sceneggiatore, l’eccezionale coreografo Jerome Robbins (che co-firmò anche, con Robert Wise, la regia cinematografica) e il proteiforme Leonard Bernstein, agli esordi di una carriera stellare come compositore, direttore orchestrale e popolare divulgatore di cose musicali.
Com’è noto, a West Side Story (le cui vendite, quanto al disco della colonna sonora, contribuirono a riequilibrare il bilancio allora in rosso della Columbia) arrisero premi numerosi e meritatissimi:gli autori erano riusciti, in un team work giovane, coeso e capace di generare un grande impatto tecnico ed emotivo, a rinnovare in modo definitivo i contenuti classici della commedia musicale.
Lasciando cioè alle spalle triangoli amorosi e lieti fine per sostituirvi la fotografia di una nuova generazione giovanile, al tempo stesso “beat” e “cool”, disperata e ribelle, un dramma fatto di amore e morte (tratto da un’alta fonte teatrale, il Romeo e Giulietta di William Shakespeare, a sua volta ripreso da un racconto del nostro Matteo Bandello), i conflitti interetnici e sociali (tra i “bianchi”, i Jets, e i “mezzi neri” portoricani, gli Sharks) e una inedita e riuscitissima rappresentazione spaziale e coreutica dello spirito della metropoli.
Moderno atto d’amore nei confronti di New York, inizialmente ripresa dall’alto, valorizzata orizzontalmente e ritmicamente nella sua dimensione “on the road” e rappresentata in un West End fantasma, il luogo delle contrastate vicende di Tony e Maria, Anita e Bernardo, Chino e Riff.
Chi ha parlato, nei commenti critici di queste settimane, di “operazione anti-filologica” da parte di Spielberg andrebbe internato da subito nell’altro Spielberg, la prigione austriaca del diciannovesimo secolo.
Ma quale anti-filologia?
Questo film del settantacinquenne regista americano è del tutto diverso, a partire dal fatto che si sviluppa non dalla pellicola del 1961, ma piuttosto dal suo antecedente teatrale del 1957, nel cui cast emerse quella Rita Moreno che nel film di Steven Spielberg, e del brillante e colto sceneggiatore Tony Kushner, appare l’unico possibile trait-d‘union con gli originali.
Anche se di fatto Rita Moreno racconta una sua altra storia, pur lavorando nella drogheria dell’ex-marito Doc, che nel film di 1961 rappresentava la coscienza critica, nella sua rassegnata maturità, delle violenze delle due bande giovanili.
Il peso autoriale, in un confronto, sembra essersi spostato dall’asse Robbins-Bernstein a quello di Spielberg e Kushner.
La mano esperta e la maestria del racconto per immagini permeano tutto il film odierno, le cui vicende e varianti si devono principalmente alle ricerche e all’accuratezza dello sceneggiatore, parte di un cast autoriale (come nel film del 1961) molto yiddish.
Kushner ha modificato in senso narrativo la scaletta dei brani musicali, ha optato per una precisazione della contrapposizione etnica fra Jets e Sharks (gli uni con un “polacco-americano”, Tony, peraltro sfottuto dai poliziotti che controllano senza esito le due bande, gli altri valorizzati, i portoricani, da dialoghi che alternano l’inglese allo spagnolo), ha introdotto momenti narrativi inediti (come l’appuntamento di Tony e Maria in metropolitana, o la pistola che Riff, capo dei Jets, si procura acquistandola da un malvivente in un locale malfamato).
E ancora, tra le novità, i baci tra Tony e Maria, che passano anche una notte assieme, dormendo nella casa nella quale Maria convive con Bernardo e Anita (nel film del 1961 era invece quella dei genitori di Maria), o il fatto che qui Bernardo sia un pugile professionista, o ancora il racconto dell’anno di prigionia per violenze raccontato spontaneamente da Tony, che prende le distanze dal suo errore.
Maria, impersonata da una abbastanza convincente Rachel Zegler, è (cognome forse ebraico a parte) autenticamente latino-americana, come non era la pur leggiadra Natalie Wood nel casting di Robert Wise, che rischiava di essere scambiata per una bianca, per una dei Jets. Dove Spielberg e Kushner (ma credo anche David Newman, che ha scritto gli arrangiamenti, pur assumendo quasi in toto la partitura originale di Bernstein) hanno agito nel senso di un omaggio alla prassi interpretativa del musical è nel far sì che i protagonisti principali recitassero e cantassero nello stesso momento, come accade con felice esito complessivo.
Di nuovo, musicalmente, rispetto al film del 1961, non c’è molto, se non alcune sezioni di strumento ad arco aggiunte da Newman, qualche battuta in meno in alcune canzoni, e soprattutto la presenza di una brillante orchestra cubana nella palestra dove le bande si danno appuntamento per ballare il mambo; ma che, a seguito dell’incontro tra Maria e Tony, diventa il luogo dove esplode la violenza e la rivalità tra Jets e Sharks, con quel doloroso e drammatico strascico di morti volute o accidentali che fa di West Side Story, volutamente, un dramma, più che una commedia.
La violenza tra le due bande rivali è ritratta con assoluto magistero da Spielberg, che rivela, in sintonia con l’eccellente e ipertecnica fotografia di Janusz Kaminski, un senso fortemente realistico della violenza, nel film originale più accennata che reale, ora più manifesta, più fragorosa, più dettagliata.
A West Side Story di Spielberg, che in una intervista rivela di aver ascoltato il disco originale del musical a soli dieci anni d’età, perverranno premi e riconoscimenti.
Meritati, mentre la produzione, che ha fatto le cose in grande stile, in attesa del DVD, ha assicurato anche un nuovo disco, e un libro, collegato, edito da Abrams Books e firmato da Laurent Bouzereau.