TRE PIANI. OPERA MATURA DI NANNI MORETTI

  Milano, 26 settembre 2021. Di Luca Cerchiari, Musicologo, Critico Musicale, Accademico. Chi lo conobbe per i primi film, come Ecce Bombo o Io sono un autarchico,

TRE PIANI. OPERA MATURA DI NANNI MORETTI

che riflettevano il contesto fine anni Settanta, giovanilistico-movimentista, “politically correct” ma anche caciarone, alla romana, potrebbe esserne sorpreso.

Tre piani, accolto con oltre dieci minuti di applausi dal pubblico del Festival di Cannes, dove è stato presentato di recente (ora è nelle sale italiane), è un film maturo, introspettivo, di elevata qualità, basato sulle vicende dolorose o controverse di tre diversi nuclei familiari, che svelano la complessa e talora contorta psicologia di alcuni dei loro componenti.

Il longilineo Moretti, non rinunciando-alla Hitchcock- ad apparire anche come attore, è Vittorio, un giudice del tribunale romano, e così sua moglie Dora, una non più giovane e molto cresciuta, quanto a doti attoriali, Margherita Buy.

Il loro figlio ventenne Andrea (Alessandro Sperduti), ubriaco, travolge con la sua auto, sotto casa, una donna, e la uccide; viene processato e condannato a cinque anni di prigione, senza però che i genitori, che vanamente cercano di fargli comprendere la grave responsabilità della quale si è macchiato, lo aiutino minimamente a sottrarsi, grazie alle loro conoscenze nell’ambiente (come lui spererebbe) alla condanna; il che inasprisce ulteriormente il rapporto, già compromesso, tra figlio e padre.

Il giudice Vittorio muore, e il figlio riuscirà solo in conclusione della storia (quando è andato a vivere in campagna con una ragazza che gli ha dato un bambino) a recuperare, accennando a un sorriso, il rapporto con la madre, anche lei rifiutata per anni.

In piani diversi del medesimo condominio, eletto a scena del film, abitano altre due famiglie.

In una la piccola figlia Francesca viene spesso accudita da una coppia di anziani vicini, Renato e Giovanna.

Il padre della bambina, Lucio (un Riccardo Scamarcio a sua volta sensibilmente maturato quanto a capacità recitative) è ossessionato dal timore che Renato, momentaneamente scomparso nel parco vicino casa con la bambina, possa averla molestata sessualmente, il che non è accaduto; in preda all’ira, cerca di soffocare Renato, che intanto è in ospedale, perché si è sentito male.

Renato, poco dopo, per suoi problemi di salute, muore.

Ma Lucio è anche “circuito” dalla nipote di Renato e Giovanna, l’avvenente e quasi diciottenne Charlotte.

Lucio cerca di sottrarsi alle sue profferte da innamorata, ma poi finisce a possederla in un rapporto sessuale che la libera della verginità; ma che si ritorce contro di lui con il conseguente processo, intentato vendicativamente da Renata (che sa del tentativo di Lucio di soffocare in ospedale il marito), e dalla madre di Charlotte, ai suoi danni.

Le vicende, narrativamente intrecciate, si sviluppano su due archi di cinque anni.MARGHERITA 

Nella terza famiglia, Monica (la bravissima Alba Rohrwacher) è la giovane madre, troppo spesso sola, e quindi a disagio, di una neonata bambina; il marito Giorgio (Adriano Giannini), ingegnere, lavora lontano da casa.

I due avranno un secondo figlio: ma anche qui la vicenda familiare, nella quale si inserisce anche il fratello di Giorgio, un pregiudicato, si dipana tra angosce, timori, senso di solitudine, allucinazioni e incomprensioni.

Moretti, con Tre piani (produzione Fandango/Sacher Film), ha ripreso e adattato un romanzo dello scrittore israeliano Eskhol Nevo (edito da Neri Pozza nel 2017) nel quale le tre vicende si svolgono invece separatamente.

Lo ha fatto con mano sicura, e con felice capacità di introspezione psicologica, quasi a mettere in scena, in senso filmico e latamente visivo, i micro e macrodrammi socio-familiari che da sempre hanno per ambientazione e origine le mura domestiche.

Tre piani è un’opera di livello elevato, che per i suoi stessi contenuti, forse anche vicini alla sensibilità del regista in questa fase ultima della sua carriera, accompagna lo spettatore, all’uscita dalla sala cinematografica, con un senso di disagio e di cupezza; quasi a immedesimarsi nel senso di spleen esistenziale che romanzo e film si preoccupano di trasmetterci.