Stretto di Hormuz: manca poco alla guerra
Fra l’Oman e l’Iran si trova lo Stretto di Hormuz, collo di bottiglia lungo 21 miglia, ma largo solamente 2, che consente al petrolio del Golfo Persico (quindi di Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Qatar, Iraq, Kuwait, parte dell’Arabia Saudita e dell’Iran) di transitare verso il Golfo dell’Oman e quindi il Mare d’Arabia, pronto a diventare la materia prima che fa funzionare l’economia mondiale.
Per lo Stretto di Hormuz, secondo l’EIA (Energy Information Administration), nel 2011 sono passati circa 17 milioni di barili di petrolio al giorno (in aumento del 6,25% rispetto al transito del 2010), numeri impressionanti, che rappresentano il 35% del petrolio che viaggia via mare o il 20% del petrolio scambiato nel mondo. Nel 2011, per lo Stretto di Hormuz sono passate in media 14 petroliere al giorno cariche di greggio, diretto prevalentemente verso l’Asia -in particolare Giappone, India, Corea del Sud e Cina (il gigante asiatico è obbligato a rifornirsi via mare dall’Oceano Indiano, avendo difficoltà a far costruire degli oleodotti in paesi instabili come Afghanistan e Pakistan).
Un’ipotetica chiusura dello Stretto di Hormuz a causa delle crescenti tensioni fra Iran da una parte ed Israele, Stati Uniti e Gran Bretagna dall’altra (ma in generale tutti i paesi così detti occidentali) porterebbe ad un forte aumento dei costi di trasporto dell’oro nero, perché rotte alternative esistano, ma sono più costose. Un’alternativa potrebbe essere l’oleodotto Petroline, che attraversa tutta l’Arabia Saudita per 745 miglia, collegando Abqaiq a Yanbu, nel Mar Rosso. L’oleodotto ha però una capacità limitata, pari a 5 milioni di barili al giorno. In parallelo a Petroline scorre il gasdotto, che potrebbe comunque essere utilizzato in caso di emergenza, ma la capacità di quest’ultimo è limitata a 290 mila barili di petrolio al giorno. Ulteriori rotte potrebbero essere quelle dell’oleodotto di Abu Dhabi (con una capacità di 1,5 milioni di barili al giorno), che attraversa lo stesso emirato ed arriva al porto di Fujairah, permettendo quindi di aggirare lo Stretto di Hormuz giungendo a sud dello stesso. In caso di emergenza si potrebbe anche andare a riutilizzare l’oleodotto iraqeno IPSA che attraversa l’Arabia Saudita (portata 1,65 milioni di barili al giorno) e Tapline (portata 500 mila barili di petrolio al giorno), diretto in Libano. Tutte queste rotte alternative riuscirebbero a coprire poco più della metà del petrolio che nel 2011 è transitato per lo Stretto di Hormuz, resterebbero però 8 milioni di barili di petrolio che non potrebbero andare ad onorare i propri contratti (per lo più asiatici), in caso di blocco dello Stretto di Hormuz.
Intanto, a gettar benzina sul fuoco nella delicata questione, ci ha pensato il premier israeliano Netanyahu, che il 6 marzo scorso ha incontrato il presidente americano Barack Obama, a cui ha riferito che l’Iran non ha una, ma dieci “Fordow”, ovvero la località (vicina a Qom) dove il governo iraniano stava arricchendo l’uranio segretamente (scoperta dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica il 21 settembre 2009 grazie alle soffiate dell’intelligence occidentale). Il premier israeliano continua a premere nei confronti dell’amministrazione americana per accorciare i tempi e poter intervenire al più presto –con la forza naturalmente. Il presidente americano Obama sta cercando di giocare l’ultima o forse l’ultimissima carta diplomatica, rappresentata da sanzioni ancora più rigide, ma è una corsa contro il tempo, perché Israele sembra essere decisa ad un intervento armato per i prossimi mesi. Quello che è emerso da questo incontro fra Obama e Netanyahu è una mancanza di intesa fra i due ed il rischio è che Israele sfrutti tutta la debolezza politica di Obama (che deve cercare di essere riconfermato a novembre alle elezioni presidenziali) per un intervento militare in solitaria, per colpire i siti dove l’Iran sta arricchendo l’uranio ed evitare così che il regime degli Ayatollah arrivi alla tanto temuta bomba atomica (peraltro Israele dispone di più di 50 ordigni nucleari e non ha mai firmato il trattato di non proliferazione delle armi, a differenza dell’Iran).
Un intervento militare di Israele (che pare essere sempre più probabile visti gli scarsi miglioramenti nella delicata questione iraniana) provocherebbe una situazione di forte instabilità nello Stretto di Hormuz, con l’Iran che cercherebbe di bloccare il passaggio di quei 17 milioni di barili che ogni giorno transitano per lo Stretto. Il blocco dello Stretto di Hormuz, con il conseguente balzo del prezzo del petrolio, affosserebbe ogni speranza di ripresa dell’economia europea e smorzerebbe la crescita mondiale, andando a toccare direttamente l’approvvigionamento di petrolio di importanti economie asiatiche (Cina, Corea del Sud, India e Giappone).