Storia di una sconfitta e di un oceano

Io ho una paura tremenda degli aerei. Da poco, da quando sono andato in Cina, ma ce l’ho. E così è davvero dura reggere le due ore e mezza di volo che dividono Milano da Porto, ma alla fine atterro. Aereoporto decisamente moderno e funzionale, sicuramente un benvenuto che regge appieno il confronto, per lo meno a livello scenico, con gli aereoporti della lombarda. Una cosa è certa: a Porto, come in buona parte delle metropoli mondiali (cosa che tra l’altro Porto propriamente non è) , hanno capito che è un servizio di “civiltà” il collegare uno scalo alla città attraverso i trasporti pubblici. E così, in metro, tempo quaranta minuti, mi ritrovo in albergo. Solo trenta euro a notte, colazione inclusa, per una stanza che ha tutto quello che serve. Esco a fare due passi, direzione Ribeira, il “cuore” turistico della città, folklore e sapori sulla sponda del Douro. Passeggiando incontro edifici bellissimi, incredibilmente abbandonati. La vita costa davvero poco, poco più di un euro e fai una colazione da re, con un caffè niente male. Il taxi con quattro soldi ti porta ovunque. Se poi vuoi mangiare, con dieci euro arrivi ad assomigliare al signor Creosoto di montypythoniana memoria. Strana atmosfera. Un mercatino decadente, banderie come talismani, grigio con polvere di diamante e icone sacre che chiedono perdono. Senti di essere all’interno di un paese ferito, anche molto, eppure ti viene da andare a zonzo con uno strano sorriso sulle labbra. Le persone sono vive, non sempre cordiali, ma non sembrano grigi cadaveri in attesa di una ulteriore esecuzione. Quelli che trovi a Milano tanto per dire. Il profumo nell’aria non è quello della rinuncia, ma neanche quello della rabbia. E’ l’odore del sudore, quello che se speso bene ti fa vincere le battaglie. Prima o poi. O forse no. Deve ancora nascere quello capace di convincermi che nella vita contino i risultati. L’oceano, quando ti avvicini e il sole è basso, ti apre la mente. Le persone parlano, si muovono, ognuno ha un suo mondo, l’unico, da portare avanti. La consapevolezza della solitudine dell’uomo di fronte all’incedere dell’esistenza, ti verrebbe da dire. Ognuna così insignificante, eppure così unica, così preziosa per ognuno di noi, eppure così sprecata. Sprecata in un’ora d’ufficio, un’ora che è drammaticamente necessaria e crudele. Ma è crudele perché noi lo siamo. Perché essere crudeli, è la malattia di chi è solo, infezione da negazione. Bisognerebbe imparare la vita sorseggiando un Porto, guardando il mare. Intanto il sole cala, le vie iniziano a lasciare lo spazio ai ricordi, alle emozioni dei colori che si accendono prima di spegnersi in un sospiro che guarda oltre. Forse è questo il senso della tanto chiaccherata saudade. Eppure non mi sento solo. Chi si sente solo ha troppe persone intorno. Perchè per scatenare la paura bisogna essere in tanti a nascondere la luce, così poi si finisce per non riconoscerla più, si arriva a credere che non esista. Lascio due euro al tavolo del bar. Un “obrigado” e un sorriso. Un volto che non rivedrò mai più probabilmente. Ma io non mi sento solo.

Storia di una sconfitta e di un oceano