Quante lezioni dalla vicenda BPM

  C’era una volta una grande banca popolare fortemente radicata nel territorio più ricco e dinamico del paese … Potrebbe essere questo l’incipit scelto da chi tra qualche anno vorrà raccontare le vicende che negli ultimi anni hanno riguardato la Banca Popolare di Milano, e non perché pensiamo che questa sia destinata a scomparire, ma perché le sue ultime vicissitudini paiono indicare che difficilmente essa potrà mantenere a lungo le caratteristiche che l’hanno così fortemente connotata dal 1865, anno della sua fondazione. Queste sono note: una struttura fortemente ed effettivamente cooperativa, con una importante concentrazione di poteri nelle componenti organizzate dei soci dipendenti ed ex dipendenti, favorita dal voto strettamente capitario; una altrettanto forte centralità del territorio di riferimento nella scelta di allocazione dei fondi raccolti tra la clientela. Questi due capisaldi sono stati messi progressivamente in crisi dalla crescente concentrazione del settore bancario, ormai caratterizzato anche in Italia da pochi player di rilievo nazionale, quando non europeo, e dalla regolamentazione sovranazionale (leggi UE e Basilea) che impone a tutte le banche le medesime regole e i medesimi ratios patrimoniali, indipendentemente dall’estensione della rete e dalla tipologia prevalente di business svolto; sotto quest’ultimo profilo pare anzi che solo la ferma resistenza del valtellinese Tremonti (conterraneo dei due colossi del settore Creval e PopSondrio) abbia evitato che Bruxelles negli ultimi anni assumesse decisioni irreversibili in materia. Aggiungiamo infine che l’influenza dei sindacati, che coagulano attorno a sé le componenti organizzate dei soci-dipendenti, non sempre ha spinto (per usare un eufemismo) in direzione di efficienza e solidità gestionale, come ha riconosciuto da ultimo il leader Cisl Raffaele Bonanni, intervendo proprio nella “campagna elettorale” di BPM per chiedere un passo indietro alle sigle egemoni nell’azionariato della banca, affermando condivisibilmente che la realizzazione di una democrazia economica più avanzata, che è un valore in sé, resta ovviamente l’obbiettivo di un grande sindacato, ma che deve essere perseguita senza risolversi in detrimento per la creazione di valore nel lungo periodo, come invece evidenziava pochi giorni fa un’impietosa indagine del Sole 24 Ore (cfr. Il Sole del 22 ottobre, p. 4 di Plus). Erano del resto le medesime considerazioni cui era pervenuta da tempo Bankitalia, imponendo una drastica revisione dello statuto, con il passaggio ad un modello di gestione duale piuttosto estremo, che prevede non solo una radicale separazione tra proprietà e gestione, ma altresì la totale discontinuità con il passato, vietando la nomina in consiglio di gestione di esponenti che avessero ricoperto analoghe posizioni in passato. Poco importa oggi che delle due contrapposte cordate, guidate l’una dal duo Annunziata-Bonomi, l’altra da Messori-Arpe, abbia prevalso la prima, più continuista. Quello che infatti balzava agli occhi era piuttosto l’analogia della loro composizione, giacché ciascuna delle due prevedeva l’ingresso di un socio di capitale. Oggi che Bonomi siede nel c.d.g. appare francamente ingenuo pensare che rinunci a favorire nel medio periodo un’evoluzione che gli consenta di far pesare il proprio investimento (200 mln) con strumenti più incisivi di quanto sia possibile nella situazione attuale, in cui il suo voto vale quanto quello di qualsiasi altro socio. Se in questa fase è prematuro esprimere giudizi netti, appare però chiaro che nulla sarà più come prima.   Diego Corrado, avvocato

Quante lezioni dalla vicenda BPM