Perchè Giavazzi ed Alesina sbagliano sull’imposta patrimoniale

Scritto per Ifanews da Paolo Sassetti, ex membro del comitato scientifico Aiaf ed ex ceo Sopaf, professionista nella consulenza finanziaria. Sono un estimatore dei professori Giavazzi ed Alesina, ma il loro articolo di fondo pubblicato sul “Corriere” del 14 novembre (“Un’agenda possibile”) mi trova contrario e contrariato per ragioni di forma e di sostanza.   Di forma, perché voler mettere dei paletti al programma di un Governo che non ha ancora avuto la fiducia del Parlamento e senza neppure aver ancora ascoltato le proposte del Presidente del Consiglio incaricato significa contestare in anticipo possibili strumenti di politica economica di emergenza, offrendo argomentazioni “accademiche” ai sostenitori dello status quo fiscale.

Perchè Giavazzi ed Alesina sbagliano sull’imposta patrimoniale
 
Di sostanza, perché l’opposizione dichiarata ad un’imposta patrimoniale appare preconcetta e non tiene conto del fatto che, dietro all’ espressione “imposta patrimoniale”, possono concretizzarsi forme di tassazione assai diversa per le quali non si può generalizzare il giudizio.
 
Nel mondo occidentale (ma probabilmente a maggior ragione nei paesi emergenti) la ricchezza è molto più concentrata che il reddito. Normalmente al raddoppio del reddito di un individuo corrisponde il triplicamento della sua ricchezza. Se un cittadino ha il doppio della ricchezza di un altro cittadino, normalmente ha anche il triplo della sua ricchezza, se ha quattro volte il suo reddito ha anche nove volte la sua ricchezza, se ha otto volte il suo reddito è facile che abbia anche ventisette volte la sua ricchezza, e, così via, in una progressione esponenziale.
 
In questa relazione statistica tra reddito e ricchezza  risiede una delle ragioni politiche ed economiche della imposizione di una imposta generale sulla ricchezza. Una imposta generale sulla ricchezza può consentire una riduzione della imposizione sul reddito a parità di gettito e pressione fiscale complessiva di un Paese, e realizzando al contempo una forte perequazione sociale ed uno stimolo dei consumi privati.
 
Se si considera, inoltre, che in Italia molti grandi patrimoni sono il risultato di grandi evasioni e conseguenti “scudi” fiscali, poiché appare improponibile sotto l’aspetto giuridico l’idea di riprendere a tassazione i capitali già scudati in passato, la tassazione di tali patrimoni per via patrimoniale appare l’unico modo per sanare, almeno parzialmente, una grande ingiustizia sociale realizzata, appunto, tramite gli scudi fiscali.
 
Infine, Giavazzi ed Alesina nel llro articolo non escludono, anzi paiono caldeggiare la reintroduzione dell’ICI sulla prima casa. 
 
Ma cos’è l’ICI se non una imposta patrimoniale che colpisce essenzialmente le classi medie e non le classi alte, per il fatto che la maggior parte della famiglie italiane ha il grosso dei sui risparmi allocato nella prima casa? L’ICI sulla prima casa è semplicemente una imposta patrimoniale regressiva, che colpisce più i poveri che le classi medie e più le classi medie che le classi ricche.
 
Questa scena l’abbiamo vista rappresentata per decenni. Invocare la coesione sociale richiede finalmente una diversa rappresentazione. L’ICI sulla prima casa probabilmente andrà reintrodotta per dare agli enti locali una loro base imponibile autonoma, ma probabilmente non sarà sufficiente, ne’ per ragioni di gettito, ne’ per ragioni di equità sociale.
 
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