NON SVENTOLA PIU' LA BANDIERINA DELL'AUTONOMIA DIFFERENZIATA
Trento, 4 dicembre 2024. Di Paolo Rosa, avvocato.
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La lettura della motivazione della sentenza 192/2024 della Corte Costituzionale porta ad ammainare la bandiera dell'autonomia differenziata perchè la Corte ha dato una lettura orientata anche della precedente riforma del 2001.
Il Capitolo 4 dei motivi di diritto spiega bene la situazione attuale.
"L’esame delle questioni richiede di procedere all’interpretazione dell’art. 116, terzo comma, Cost., introdotto con la riforma costituzionale del 2001.
Tale disposizione, che consente di superare l’uniformità nell’allocazione delle competenze al fine di valorizzare appieno le potenzialità insite nel regionalismo italiano, non può essere considerata come una monade isolata, ma deve essere collocata nel quadro complessivo della forma di Stato italiana, con cui va armonizzata.
Una componente fondamentale della forma di Stato delineata dalla Costituzione è il regionalismo, connotato dall’attribuzione alle regioni di autonomia politica, che si specifica in autonomia legislativa (art. 117, terzo e quarto comma, Cost.), amministrativa (art. 118 Cost.) e finanziaria (art. 119 Cost.), a cui si aggiunge la garanzia dell’autonomia degli enti locali.
Fin dai principi fondamentali, la Costituzione afferma che la Repubblica «riconosce e promuove le autonomie locali» e che essa «adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento» (art. 5).
Nel disegno costituzionale già sono riconosciute ad alcune regioni «forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale» (art. 116, primo comma, Cost.).
Il terzo comma della stessa disposizione sviluppa questa logica di differenziazione prevedendo che le regioni ordinarie, seguendo una particolare procedura che termina con una legge rinforzata, possono ottenere «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia».
Al tempo stesso, la Costituzione definisce la Repubblica come «una e indivisibile» (così il medesimo art. 5 Cost.).
L’unità e indivisibilità della Repubblica si fondano sul riconoscimento dell’unità del popolo, a cui l’art. 1, secondo comma, Cost. attribuisce la titolarità della sovranità.
La Costituzione riconosce e garantisce pienamente il pluralismo politico (artt. 48 e 49 Cost.), sociale (artt. 2, 17, 18, 39, 118, quarto comma, Cost.), culturale (artt. 9, primo comma, 21, 33, primo comma, Cost.), religioso (artt. 8 e 19 Cost.), scolastico (art. 33, terzo comma, Cost.), della sfera economica (art. 41 Cost.).
Tuttavia, tale accentuato pluralismo, che si riflette anche sul piano istituzionale (artt. 5 e 114 Cost.), non porta alla evaporazione della nozione unitaria di popolo.
La nostra democrazia costituzionale si basa sulla compresenza e sulla dialettica di pluralismo e unità, che può essere mantenuta solamente se le molteplici formazioni politiche e sociali e le singole persone, in cui si articola il “popolo come molteplicità”, convergono su un nucleo di valori condivisi che fanno dell’Italia una comunità politica con una sua identità collettiva.
In essa confluiscono la storia e l’appartenenza a una comune civiltà, che si rispecchiano nei principi fondamentali della Costituzione.
A tutto ciò si riferisce la stessa Costituzione quando richiama il concetto di “Nazione” (artt. 9, 67 e 98 Cost.).
Il popolo e la nazione sono unità non frammentabili.
Esiste una sola nazione così come vi è solamente un popolo italiano, senza che siano in alcun modo configurabili dei “popoli regionali” che siano titolari di una porzione di sovranità (sentenza n. 365 del 2007).
L’unità del popolo e della nazione postula l’unicità della rappresentanza politica nazionale.
Sul piano istituzionale, questa stessa rappresentanza e la conseguenziale cura delle esigenze unitarie sono affidate esclusivamente al Parlamento e in nessun caso possono essere riferite ai consigli regionali (sentenza n. 106 del 2002).
Le pur rilevanti modifiche introdotte nel 2001 con la riforma costituzionale del Titolo V non permettono di individuare «una innovazione tale da equiparare pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali che pure tutti compongono l’ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato, delle Regioni e degli enti territoriali» (sentenza n. 365 del 2007).
La ricchezza di interessi e di idee di una società altamente pluralistica come quella italiana non può trovare espressione in una unica sede istituzionale, ma richiede una molteplicità di canali e di sedi in cui trovi voce e dalle quali possa ottenere delle politiche pubbliche, anche differenziate, in risposta alle domande emergenti.
Perciò il regionalismo corrisponde ad un’esigenza insopprimibile della nostra società, come si è gradualmente strutturata anche grazie alla Costituzione.
Spetta, però, solo al Parlamento il compito di comporre la complessità del pluralismo istituzionale.
La tutela delle esigenze unitarie, in una forma di governo che funziona secondo la logica maggioritaria, è espressione dell’indirizzo politico della maggioranza e del Governo, nel rispetto del quadro costituzionale.
Tuttavia, la sede parlamentare consente un confronto trasparente con le forze di opposizione e permette di alimentare il dibattito nella sfera pubblica, soprattutto quando si discutono questioni che riguardano la vita di tutti i cittadini.
Il Parlamento deve, inoltre, tutelare le esigenze unitarie tendenzialmente stabili, che trascendono la dialettica maggioranza-opposizione.
Di conseguenza, la vigente disciplina costituzionale riserva al Parlamento la competenza legislativa esclusiva in alcune materie affinché siano curate le esigenze unitarie (art. 117, secondo comma, Cost.), e gli affida altresì dei compiti unificanti nei confronti del pluralismo regionale, che si esplicano principalmente attraverso la determinazione dei principi fondamentali nelle materie affidate alla competenza concorrente dello Stato e delle regioni (art. 117, terzo comma, Cost.), attraverso la competenza statale nelle cosiddette “materie trasversali” e mediante la perequazione finanziaria a favore dei territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119, terzo comma, Cost.).
Certamente qualsiasi sistema regionale ha in sé degli elementi di competizione tra le regioni, perché dà modo a ciascuna di esse, nell’ambito delle attribuzioni costituzionali, di seguire politiche differenti nella ricerca dei migliori risultati.
Tuttavia, l’ineliminabile concorrenza e differenza tra regioni e territori, che può anche giovare a innalzare la qualità delle prestazioni pubbliche, non potrà spingersi fino a minare la solidarietà tra lo Stato e le regioni e tra regioni, l’unità giuridica ed economica della Repubblica (art. 120 Cost.), l’eguaglianza dei cittadini nel godimento dei diritti (art. 3 Cost.), l’effettiva garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.) e quindi la coesione sociale e l’unità nazionale – che sono tratti caratterizzanti la forma di Stato –, il cui indebolimento può sfociare nella stessa crisi della democrazia.
Coerentemente con la suddetta esigenza, il regionalismo italiano, nel cui ambito deve inserirsi la differenziazione di cui all’art. 116, terzo comma, Cost., non è un “regionalismo duale” in cui tra una regione e l’altra esistono delle paratie stagne a dividerle.
Piuttosto, è un regionalismo cooperativo (sentenza n. 121 del 2010, punto 18.2. del Considerato in diritto), che dà ampio risalto al principio di leale collaborazione tra lo Stato e le regioni (ex multis, sentenze n. 87 del 2024 e n. 40 del 2022) e che deve concorrere alla attuazione dei principi costituzionali e dei diritti che su di essi si radicano.
A tale logica costituzionale va ricondotta la differenziazione contemplata dall’art. 116, terzo comma, Cost., che può essere non già un fattore di disgregazione dell’unità nazionale e della coesione sociale, ma uno strumento al servizio del bene comune della società e della tutela dei diritti degli individui e delle formazioni sociali.
Il sistema costituzionale garantisce sia l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, sia l’autonomia politica regionale e la possibilità della differenziazione tra le stesse regioni.
Per quanto riguarda la ripartizione dei compiti, il collegamento tra l’unità e indivisibilità della Repubblica, da una parte, e l’autonomia delle regioni accresciuta grazie alla differenziazione di cui all’art. 116, terzo comma, Cost., dall’altra, è assicurato dal principio di sussidiarietà.
Il principio di sussidiarietà è, del resto, un principio fondamentale dello spazio costituzionale europeo.
Esso orienta la ripartizione delle competenze legislative tra l’Unione e gli Stati membri (art. 5 TUE, nonché il Protocollo n. 2 annesso al Trattato) ed è altresì riconosciuto dal diritto costituzionale di alcuni Stati membri (art. 72 della Costituzione francese e art. 6 della Costituzione portoghese).
Nell’ordinamento italiano, il principio di sussidiarietà verticale ha un riconoscimento testuale negli artt. 118, primo comma, e 120, secondo comma, Cost. (con riferimento, rispettivamente, alle funzioni amministrative ed al potere sostitutivo), ed è stato oggetto di elaborazione da parte della giurisprudenza costituzionale, che l’ha esteso alla funzione legislativa tramite l’istituto della “chiamata in sussidiarietà” (sentenze n. 303 del 2003 e n. 6 del 2004).
Anche la legge impugnata, peraltro, richiama il principio di sussidiarietà negli artt. 1, comma 1, e 6, comma 1.
Tale principio esclude un modello astratto di attribuzione delle funzioni, ma richiede invece che sia scelto, per ogni specifica funzione, il livello territoriale più adeguato, in relazione alla natura della funzione, al contesto locale e anche a quello più generale in cui avviene la sua allocazione.
La preferenza va al livello più prossimo ai cittadini e alle loro formazioni sociali, ma il principio può spingere anche verso il livello più alto di governo. Ai fini dell’attribuzione della funzione, contano le sue caratteristiche e il contesto in cui la stessa si svolge.
La sussidiarietà funziona, per così dire, come un ascensore, perché può portare ad allocare la funzione, a seconda delle specifiche circostanze, ora verso il basso ora verso l’alto.
Poiché il principio di sussidiarietà opera attraverso un giudizio di adeguatezza, esso non può che riferirsi a specifiche e ben determinate funzioni e non può riguardare intere materie. La funzione è un insieme circoscritto di compiti omogenei affidati dalla norma giuridica ad un potere pubblico e definiti in relazione all’oggetto e/o alla finalità. A ciascuna materia afferisce, invece, una gran quantità di funzioni eterogenee, per alcune delle quali l’attuazione del principio di sussidiarietà potrà portare all’allocazione verso il livello più alto, mentre per altre sarà giustificabile lo spostamento ad un livello più vicino ai cittadini.
L’art. 116, terzo comma, Cost. va interpretato coerentemente con il significato del principio di sussidiarietà, e pertanto la devoluzione non può riferirsi a materie o ad ambiti di materie, ma a specifiche funzioni.
Il tenore letterale della disposizione conferma tale conclusione. Essa, infatti, fa riferimento alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia «concernenti le materie», lasciando intendere che il trasferimento non riguarda le materie ma le singole funzioni concernenti le materie.
Poiché tale disposizione prevede l’attribuzione di ulteriori forme di autonomia, senza distinguere la natura legislativa o amministrativa della devoluzione, quest’ultima potrà riguardare solamente funzioni amministrative o legislative, oppure tanto le funzioni legislative che quelle amministrative concernenti il medesimo oggetto.
In definitiva, secondo la prospettiva costituzionale, incentrata sul principio di sussidiarietà, la scelta sulla ripartizione delle funzioni legislative e amministrative tra lo Stato e le regioni o la singola regione, nel caso della differenziazione ex art. 116, terzo comma, Cost., non può essere ricondotta ad una logica di potere con cui risolvere i conflitti tra diversi soggetti politici, né dipendere da valutazioni meramente politiche.
Il principio di sussidiarietà richiede che la ripartizione delle funzioni, e quindi la differenziazione, non sia considerata ex parte principis, bensì ex parte populi.
La ripartizione delle funzioni deve corrispondere al modo migliore per realizzare i principi costituzionali. Tale necessità è affermata dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui, nel contesto della riforma del Titolo V della Costituzione, «la maggiore autonomia è stata riconosciuta nell’ambito di una prospettiva generativa, per cui promuovendo processi di integrazione fra i vari livelli istituzionali e civili, gli enti territoriali avrebbero consentito una migliore attuazione, rispetto all’assetto precedente, dei valori costituzionali» (sentenza n. 168 del 2021).
In questa prospettiva, l’adeguatezza dell’attribuzione della funzione ad un determinato livello territoriale di governo va valutata con riguardo a tre criteri: l’efficacia e l’efficienza nell’allocazione delle funzioni e delle relative risorse, l’equità che la loro distribuzione deve assicurare e la responsabilità dell’autorità pubblica nei confronti delle popolazioni interessate all’esercizio della funzione. Tali criteri trovano fondamento nella Costituzione.
Quanto al primo, è sufficiente richiamare il principio del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97, secondo comma, Cost.).
Vi sono funzioni pubbliche che, per i loro caratteri, possono essere svolte efficacemente ed efficientemente solamente al livello territoriale di governo più alto (statale o addirittura europeo).
Questo è il caso, ad esempio, in cui la centralizzazione determina evidenti economie di scala, oppure è richiesta per realizzare il coordinamento efficace di molteplici attori distribuiti sul territorio, ovvero qualora gli shock (crisi economiche, emergenze ambientali, sanitarie, geoeconomiche ed altro) che investono una comunità locale possono essere superati attraverso l’intervento solidaristico del centro, oppure quando l’esercizio locale della funzione determinerebbe effetti di spill-over negativi sul territorio di un’altra regione, o quando l’esistenza di regolamentazioni locali si traduce in barriere territoriali alla concorrenza pregiudicando l’unità del mercato, o ancora quando la funzione attiene agli interessi dell’intera comunità nazionale, la cui cura non può essere frammentata territorialmente senza compromettere la stessa esistenza di tale comunità, o comunque l’efficienza della funzione.
Di contro, con riguardo ad altre funzioni pubbliche, la loro allocazione a un livello territoriale di governo più basso permette all’autorità pubblica di conoscere più attentamente le peculiarità dell’ambiente in cui la funzione è svolta, di potersi meglio adeguare alle preferenze dei cittadini e alle condizioni locali, di monitorare gli effetti concreti dell’attività pubblica e procedere rapidamente a eventuali autocorrezioni, di realizzare più efficacemente sperimentazioni e innovazioni che permettono di migliorare la qualità o l’efficienza delle prestazioni pubbliche, di rendere più facile la promozione della sussidiarietà cosiddetta orizzontale (art. 118, quarto comma, Cost.), ossia l’attribuzione ai cittadini e soprattutto alle loro formazioni sociali di compiti di interesse generale che, in relazione alla loro natura, possono essere svolti in modo più adeguato coinvolgendo le articolazioni della società piuttosto che riservandoli agli apparati pubblici.
Il principio di sussidiarietà richiede che la distribuzione delle funzioni tra i diversi livelli territoriali realizzi la soluzione più “efficiente”. Questo parametro si riferisce non solamente alle modalità di svolgimento della specifica funzione, ma altresì alle conseguenze che derivano dall’allocazione della funzione sulla dimensione e sulla dinamica dei costi sopportati dai bilanci pubblici.
A questo riguardo vanno richiamati: l’obbligo per le pubbliche amministrazioni, «in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea», di assicurare «l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico» (art. 97, primo comma, Cost.), il principio dell’equilibrio di bilancio riguardante sia lo Stato (art. 81, primo comma, Cost.) che le regioni e le autonomie locali (art. 119, primo comma, Cost.), i limiti posti al ricorso all’indebitamento (artt. 81, secondo comma, e 119, settimo comma, Cost.).
Lo spostamento di una funzione verso il basso, soprattutto se la stessa funzione viene mantenuta al centro con riguardo ad altre regioni, può, in alcuni casi, comportare la duplicazione degli apparati burocratici oppure la perdita di economie di scala. Di contro, con riguardo ad altre funzioni, dal loro trasferimento dallo Stato alla regione può derivare un risparmio dei costi, anche grazie all’adozione di modalità di esercizio più adeguate alla realtà locale o al ricorso alla sperimentazione, oppure in conseguenza di una migliore capacità amministrativa, specie se esistono meccanismi che, in qualche modo, premino i comportamenti fiscalmente virtuosi.
L’attribuzione alle diverse regioni di funzioni pubbliche che implicano prestazioni a favore dei cittadini, con cui si garantiscono i loro diritti civili e sociali, può avere conseguenze diverse sul piano dell’equità e risente del modo diverso di intendere quest’ultima. Da una parte, permettendo un maggiore aderenza alle esigenze delle popolazioni interessate e quindi una differenziazione territoriale delle regole e dell’attività amministrativa in relazione a tali esigenze, può essere vista dai cittadini direttamente interessati come la soluzione più equa, perché garantisce i loro diritti nel modo da essi ritenuto migliore.
Dall’altra parte, essa può comportare la crescita, anche accentuata, delle diseguaglianze. Ciò potrebbe avvenire a causa della diversa distribuzione territoriale del reddito, con conseguenti differenze nella capacità fiscale per abitante e quindi delle entrate regionali, nonché per effetto delle diverse capacità amministrative nelle regioni, che possono determinare una differenziazione territoriale nel livello di tutela dei diritti.
Pertanto, esiste un trade-off tra autonomia regionale e eguaglianza nel godimento dei diritti, rispetto al quale deve essere trovato un ragionevole punto di equilibrio, attraverso un’adeguata allocazione delle funzioni e idonei meccanismi correttivi delle disparità, evitando conseguenze negative in termini di diseguaglianze.
La necessità di ricercare tale punto di equilibrio è alla base di diverse disposizioni costituzionali che: tutelano i «diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» e parimenti prevedono i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2 Cost.); attribuiscono alla Repubblica nel suo complesso il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che di fatto limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (art. 3, secondo comma, Cost.); prevedono il potere statale di regolare la perequazione delle risorse finanziarie, di determinare i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» e di compiere interventi perequativi, anche per rimediare agli svantaggi dell’insularità (artt. 117, secondo comma, lettere e e m, e 119, terzo, quinto e sesto comma, Cost.); garantiscono la «tutela dell’unità giuridica» e «dell’unità economica» della Repubblica (art. 120, secondo comma, Cost.).
Alla luce di tali previsioni costituzionali, ogni processo di attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost., dovrà tendere a realizzare un punto di equilibrio tra eguaglianza e differenze.
La responsabilità politica e la partecipazione democratica sono principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale.
L’attribuzione delle funzioni ai livelli territoriali più vicini alla popolazione interessata può migliorare l’effettività della responsabilità politica, perché la vicinanza favorisce il controllo e la partecipazione democratica, mentre stimola l’autorità pubblica ad essere più “responsiva” nei confronti delle preferenze prevalenti nella comunità governata.
Tale aspetto si ricollega ad una delle iniziali ispirazioni della scelta costituzionale a favore del regionalismo, e cioè quella di educare i cittadini all’autogoverno rafforzando, così, la democrazia.
Di contro, possono esistere funzioni pubbliche strettamente interdipendenti, di modo che la valutazione in termini di responsabilità politica dei risultati conseguiti mediante il loro esercizio richiede che tali funzioni non siano separate e restino in capo alla medesima autorità pubblica, impedendo, in linea di massima, il trasferimento di alcune di esse verso livelli territoriali più bassi.
Inoltre, se esistono forti asimmetrie tra il “potere di spesa” decentrato e il “potere fiscale” accentrato c’è il pericolo dell’irresponsabilità finanziaria.
Infine, l’allocazione delle funzioni tra i diversi livelli territoriali di governo, in attuazione del principio di sussidiarietà, richiede sempre che essa si realizzi in modo tale da assicurare il pieno rispetto degli obblighi internazionali e di quelli nei confronti dell’Unione europea, che vincolano parimenti lo Stato e le regioni (art. 117, primo comma, Cost.).
Il legislatore costituzionale ha fatto una scelta, consolidata nel Titolo V della parte seconda della Costituzione, sull’assetto ritenuto in via generale ottimale nella ripartizione delle funzioni, sia legislative che amministrative, tra Stato, regioni ed enti locali.
Il principio di sussidiarietà, tuttavia, è dotato di una intrinseca flessibilità.
Poiché si tratta di attribuire la funzione al livello territoriale di governo dove può essere esercitata nella maniera più adeguata, in presenza di nuove circostanze il giudizio di adeguatezza può cambiare, portando a giustificare una nuova allocazione della funzione in gioco.
Tale flessibilità è riconosciuta dalla Costituzione quando prevede, in via straordinaria, l’esercizio del potere sostitutivo statale (art. 120, secondo comma, Cost.) ed è stata particolarmente valorizzata dalla giurisprudenza costituzionale con l’istituto della “chiamata in sussidiarietà”, che permette di attrarre verso l’alto insieme alla funzione amministrativa anche quella legislativa, nel rispetto del principio di leale collaborazione.
In entrambi i casi, la premessa dello spostamento della funzione, rispetto al suo livello iniziale ricavabile dal testo costituzionale, è un motivato giudizio di miglior adeguatezza in relazione alla specificità della situazione (sentenza n. 168 del 2021).
Parimenti, la giurisprudenza costituzionale in taluni casi ha ritenuto che una specifica disciplina fosse stata validamente adottata dalla regione anche in considerazione di una maggiore adeguatezza a realizzare i principi costituzionali nella situazione specificamente considerata (sentenza n. 16 del 2024: «non contrastano con la competenza legislativa statale esclusiva dello Stato le disposizioni regionali impugnate che, nell’esercizio della competenza legislativa regionale residuale in materia di pesca, producono l’effetto di elevare, in relazione a specifiche esigenze del territorio, il livello di tutela ambientale»; più recentemente si veda anche la sentenza n. 185 del 2024, punto 5.3.2 del Considerato in diritto).
L’art. 116, terzo comma, Cost., è un’altra espressione della flessibilità propria del principio di sussidiarietà. Esso contiene una clausola generale di flessibilità che consente a ciascuna regione di chiedere di derogare all’ordine di ripartizione delle funzioni ritenuto in via generale ottimale dalla Costituzione.
Poiché si tratta di una deroga alla ordinaria ripartizione delle funzioni, essa va giustificata e motivata con precipuo riferimento alle caratteristiche della funzione e al contesto (sociale, amministrativo, geografico, economico, demografico, finanziario, geopolitico ed altro) in cui avviene la devoluzione, in modo da evidenziare i vantaggi – in termini di efficacia e di efficienza, di equità e di responsabilità – della soluzione prescelta.
L’iniziativa della regione e l’intesa previste dalla suddetta disposizione costituzionale devono, pertanto, essere precedute da un’istruttoria approfondita, suffragata da analisi basate su metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate dal punto di vista scientifico (come, peraltro, suggerito dalla Banca d’Italia nella memoria depositata il 27 marzo 2024 nel corso dell’audizione davanti alla I Commissione, Affari costituzionali, della Camera dei deputati).
In ogni caso, anche qualora alcune funzioni concernenti una determinata materia vengano spostate alla competenza legislativa piena della regione, resteranno fermi i limiti generali di cui all’art. 117, primo comma, Cost. e le competenze legislative trasversali dello Stato come la tutela della concorrenza, l’ordinamento civile e i LEP, così come resta operativo il potere sostitutivo di cui all’art. 120, secondo comma, Cost.
Spetta alla discrezionalità del legislatore trovare le soluzioni che attuino la devoluzione ritenuta più adeguata, ma nella ricerca – invero non semplice – di tali soluzioni non potrà spingersi oltre le “colonne d’Ercole” rappresentate dall’art. 116, terzo comma, Cost., come precedentemente interpretato, a garanzia della permanenza dei caratteri indefettibili della nostra forma di Stato.
Resta, comunque, riservato a questa Corte il sindacato sulla legittimità costituzionale delle singole leggi attributive di maggiore autonomia a determinate regioni, alla stregua dei principi sin qui enunciati.
Il suddetto sindacato costituzionale è attivabile, oltre che in via incidentale, in via principale dalle regioni terze. Infatti, i limiti posti dall’art. 116, terzo comma, Cost. alle leggi speciali di differenziazione incidono direttamente sullo status costituzionale delle regioni terze, nel senso che la violazione di quei limiti – che si traduce in un regime privilegiato per una determinata regione – viola di per sé la par condicio tra le regioni, ossia la loro posizione di eguaglianza davanti alla Costituzione, ricavabile dagli artt. 5 e 114 Cost.
In conclusione, l’art. 116, terzo comma, Cost., richiede che il trasferimento riguardi specifiche funzioni, di natura legislativa e/o amministrativa, definite in relazione all’oggetto e/o alle finalità, e sia basato su una ragionevole giustificazione, espressione di un’idonea istruttoria, alla stregua del principio di sussidiarietà.
Questa Corte non può esimersi dal rilevare che vi sono delle materie, cui pure si riferisce l’art. 116, terzo comma, Cost., alle quali afferiscono funzioni il cui trasferimento è, in linea di massima, difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà.
Vi sono, infatti, motivi di ordine sia giuridico che tecnico o economico, che ne precludono il trasferimento.
Con riguardo a tali funzioni, l’onere di giustificare la devoluzione alla luce del principio di sussidiarietà diventa, perciò, particolarmente gravoso e complesso.
Pertanto, le leggi di differenziazione che contemplassero funzioni concernenti le suddette materie potranno essere sottoposte ad uno scrutinio stretto di legittimità costituzionale.
Inoltre, il fatto che l’art. 116, terzo comma, Cost. contempli, tra l’altro, le funzioni concernenti dette materie non implica che in esse vengano meno gli stringenti vincoli derivanti dalle altre materie trasversali o dall’ordinamento unionale o dai vincoli internazionali, che si sono rafforzati a seguito dei cambiamenti che hanno investito settori rilevantissimi della vita politica, economica e sociale: dalle due rivoluzioni tecnologiche “gemelle”, la digitale e l’energetica, che hanno determinato trasformazioni dirompenti nell’economia, nella società e di conseguenza anche nel sistema giuridico, alle tensioni che hanno investito l’ordine mondiale innescando la sua modificazione, con conseguenze imponenti di ordine strutturale che coinvolgono direttamente alcune delle materie considerate (dal commercio estero all’energia).
Quanto detto non preclude, a priori, anche in queste materie la possibilità del trasferimento di alcune funzioni, ma questo deve trovare una più stringente giustificazione in relazione al contesto, alle esigenze di differenziazione, alla possibilità da parte delle regioni di dare attuazione al diritto unionale.
Tra le funzioni in questione vi sono quelle che riguardano il «commercio con l’estero».
L’art. 3, paragrafo 1, lettera e) del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) riserva alla competenza esclusiva dell’Unione europea la «politica commerciale comune», che è poi regolata dall’art. 207 TFUE. In attuazione di tale politica commerciale, l’Unione adotta regolamenti e conclude accordi con Paesi terzi e organizzazioni internazionali. Pertanto, con riguardo al commercio con Paesi terzi, gli spazi lasciati agli Stati membri sono residuali.
Deve aggiungersi che le trasformazioni intervenute sul piano geopolitico e geoeconomico hanno avuto forti ripercussioni sulle politiche commerciali, che sempre più si intrecciano ora con le esigenze di sicurezza delle catene globali del valore, ora con gli aspetti riguardanti le relazioni di potere tra gli Stati, attraendole pertanto nella sfera della politica estera, che spetta alla competenza esclusiva dello Stato.
Per quanto riguarda, invece, il commercio con gli altri Stati membri dell’Unione, le relative regole sono quelle del mercato interno, fondato sulle quattro libertà di circolazione (delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone), in cui abbonda la normativa eurounitaria, con la conseguenza di rendere esigui gli ambiti di intervento legislativo degli Stati membri e delle loro istituzioni territoriali.
Analogamente, per quanto riguarda la «tutela dell’ambiente», si tratta di una materia in cui predominano le regolamentazioni dell’Unione europea e le previsioni dei trattati internazionali, dalle quali scaturiscono obblighi per lo Stato membro che, in linea di principio, mal si prestano ad adempimenti frammentati sul territorio, anche perché le politiche e gli interventi legislativi in questa materia hanno normalmente effetti di spill-over sui territori contigui, rendendo, in linea di massima, inadeguata la ripartizione su base territoriale delle relative funzioni.
La pervasività della disciplina eurounitaria nella suddetta materia trova il suo fondamento nell’art. 11 TFUE, secondo cui le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile.
Inoltre, l’ambiente è attribuito alla competenza concorrente dell’Unione (art. 4, comma 2, TFUE), e pertanto lo Stato può intervenire solamente fino a quando l’Unione non abbia esercitato la sua competenza normativa. Competenza che, in questo ambito, è stata esercitata in modo assai ampio.
Ancora più marcati sono gli ostacoli al trasferimento di funzioni, in particolare di quelle legislative, concernenti la materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia».
Si tratta, infatti, di una materia disciplinata dal diritto eurounionale in funzione della realizzazione del mercato interno dell’energia, della tutela del consumatore e della sicurezza energetica.
A tal fine la disciplina eurounitaria si occupa dettagliatamente della generazione di energia, delle reti di trasmissione, delle reti di distribuzione e della vendita al consumatore, in modo da realizzare un mercato effettivamente aperto, in cui deve impedirsi che un operatore verticalmente integrato possa discriminare l’accesso alla rete da parte di operatori concorrenti o sfruttare informazioni commercialmente sensibili.
Inoltre, il diritto dell’Unione ha previsto in ogni Stato membro l’istituzione di un’Autorità indipendente, titolare di rilevanti competenze, tra cui quella di determinare o di approvare, secondo criteri trasparenti, le tariffe di trasmissione e di distribuzione. A tale Autorità deve essere garantita la piena indipendenza dal potere politico (Corte di giustizia dell’Unione europea, quarta sezione, sentenza 2 settembre 2021, Commissione europea, in causa C-718/18, punti da 103 al 114).
Il sistema elettrico deve assicurare l’interoperabilità delle reti a livello europeo, assicurando gli scambi transfrontalieri, col duplice obiettivo di realizzare il mercato europeo dell’energia e di assicurare, in ciascuno Stato membro, la sicurezza energetica, soprattutto in caso di “sbilanciamento” del sistema nazionale.
Pertanto, esiste un principio di solidarietà tra gli Stati membri in campo energetico (CGUE, grande camera, sentenza 15 luglio 2020, Repubblica federale di Germania, in causa C-848/19, punti da 37 a 53), cui devono uniformarsi le regole nazionali e la conformazione delle reti, senza ostacoli su base territoriale.
A conclusioni simili si perviene per le funzioni concernenti le materie «porti e aeroporti civili» e «grandi reti di trasporto e di navigazione». Anche in questo caso, le reti di trasporto e le infrastrutture che ne sono i nodi fondamentali – come i porti e gli aeroporti – sono parti di un sistema euronazionale. Vi è, infatti, una disciplina eurounionale delle reti e dei trasporti, dei piani europei di sviluppo di alcuni grandi direttrici di trasporto (sia ferroviario che su strada), dei progetti di investimento cofinanziati dall’Unione.
Ma anche a livello nazionale le grandi reti di trasporto e i loro nodi infrastrutturali sono parti di un sistema nazionale, costituente una piattaforma essenziale dell’economia e del mercato nazionale, che richiede, nel rispetto della normativa eurounionale, il mantenimento di fondamentali funzioni, in primo luogo, di normazione, a livello statale.
Sussistono consistenti ostacoli anche al trasferimento delle funzioni relative alla materia «professioni».
Infatti, secondo il diritto dell’Unione europea, come interpretato dalla Corte di giustizia, un soggetto che esercita una libera professione che implica, in quanto attività principale, la prestazione di più servizi distinti dietro corrispettivo, esercita un’attività economica (sentenze 18 gennaio 2024, Lietuvos notaru rūmai e altri, in causa C-128/21, punti 56 e 57, e 19 febbraio 2002, Wouters e altri, in causa C-309/99, punto 47).
Peraltro, la natura complessa e tecnica dei servizi forniti e la circostanza che l’esercizio della professione sia regolamentato non possono mettere in discussione tale conclusione (sentenze del 28 febbraio 2013, Ordem dos Técnicos Oficiais de Contas, in causa C-1/12, punto 38, e ancora Lietuvos notaru rūmai e altri, punto 58 e giurisprudenza ivi citata).
Trattandosi di attività economica, anche le attività professionali, da un lato, sono sottoposte alle regole della concorrenza poste dallo Stato nell’esercizio della relativa competenza diretta a tutelarla e, dall’altro, rientrano nell’ambito della tutela del consumatore, che forma oggetto di regolamentazione analitica da parte del diritto eurounionale.
Ciò vale soprattutto per le professioni ordinistiche, che – quanto alle regole di accesso e quindi al relativo mercato – cadono nella materia «tutela della concorrenza»; anche se non si può escludere la possibilità di una differenziazione in riferimento a quelle professioni non ordinistiche che presentano nessi con la realtà locale.
Anche il trasferimento delle ulteriori funzioni, in particolare di quelle legislative, concernenti la materia «ordinamento della comunicazione» incontra ostacoli di ordine giuridico e tecnico, che rendono eccezionali e residuali le funzioni che possono essere devolute. In tale materia confluiscono il diritto delle comunicazioni elettroniche e il diritto di internet, che trovano la loro disciplina in un complesso assai esteso di atti normativi dell’Unione europea, che hanno il precipuo scopo di realizzare un mercato unico digitale che sia inclusivo, competitivo e rispettoso dei diritti fondamentali. Proprio perché si tratta di creare e garantire il mercato unico europeo, in cui le comunicazioni elettroniche e internet svolgono un ruolo fondamentale, gli atti legislativi europei sono, di regola, di massima armonizzazione, lasciando poco spazio agli Stati membri e precludendo, in linea di massima, regolamentazioni territorialmente frammentate che potrebbero fungere da ostacolo al funzionamento di tale mercato.
Gran parte delle funzioni riguardanti la materia hanno finalità pro-concorrenziali e di tutela del consumatore e, perciò, afferiscono alla materia «tutela della concorrenza» di competenza esclusiva dello Stato, potendo difficilmente essere separate da altre funzioni limitate esclusivamente alla comunicazione.
Sulla infrastruttura di rete, nei sistemi di comunicazione e su internet circolano, poi, ingenti masse di dati personali, rispetto ai quali si pone l’esigenza di garanzia del diritto fondamentale alla tutela dei dati personali, che, in talune circostanze, va contemperato con l’interesse pubblico alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e con quello all’accertamento e alla repressione dei reati.
Queste esigenze hanno portato ad una vasta regolazione di matrice eurounitaria, che, in linea di massima, lascia spazi assai esigui all’intervento regolatorio degli Stati membri e mal si concilia con differenziazioni regionali.
Con riferimento alle «norme generali sull’istruzione», questa Corte ha da tempo individuato l’elemento caratterizzante di tale materia nella «valenza necessariamente generale ed unitaria» (sentenza n. 200 del 2009; più di recente, sentenze n. 168 del 2024 e n. 223 del 2023) dei contenuti che le sono propri; tali norme generali, stabilite dal legislatore statale, «delineano le basi del sistema nazionale di istruzione», essendo funzionali ad assicurare «la previsione di una offerta formativa sostanzialmente uniforme sull’intero territorio nazionale, l’identità culturale del Paese, nel rispetto della libertà di insegnamento di cui all’art. 33, primo comma, Cost.» (sentenza n. 200 del 2009).
Non sarebbe quindi giustificabile una differenziazione che riguardi la configurazione generale dei cicli di istruzione e i programmi di base, stante l’intima connessione di questi aspetti con il mantenimento dell’identità nazionale."
In conclusione ben poche funzioni e non materie potranno transitare dallo Stato alle Regioni.