"NEI MIEI PANNI". IL PRIMO LIBRO DI STEVE FORTUNATO.
Una storia contemporanea.
Vera.
Un imprenditore che si trova ad affrontare la chiusura dell’azienda a causa degli effetti della crisi economica.
Anni duri e difficili, avvilenti, tra entusiasmi e sconforti, aggravati da problemi di salute contro i quali la determinazione e la caparbietà man mano si frantumano.
Un estratto del libro scelto da Steve:Disoccupato, in una Milano quasi trasparente, chiuso in sé stesso, rivive un passato di ricordi e un presente arido e mortificante.
Impermeabile e indifferente agli stimoli è rassegnato a non reagire e a non riuscire più a cambiare un futuro, che sembra già scritto o forse non c'è nemmeno.
Ma persone conosciute, amici, situazioni che ritornano a ravvivare il suo passato, nella ricerca di una consolazione e di una ragione che potrebbero servire ad affrontare il domani.
“Cosa ti ha detto?” mi chiede mia moglie quando smetto una telefonata, una delle rare che ricevo.
“Non lo so, non me lo ricordo” le rispondo.
“Sì ma di cosa avete parlato?” insiste lei.
“Non lo so, non l’ho capito” non sapendo rispondere nemmeno a quella domanda.
In effetti stupisce anche me il mio scarso livello di attenzione.
In realtà non ho mai fatto tanta attenzione alle parole altrui, mi sono sempre distratto facilmente.
Ancora di più al telefono dove l’altra persona non può vedere se la sto guardando o se sto facendo altro.
Anche quando lavoravo, facevo lo stesso e con le persone più logorroiche, se stavo facendo qualcosa appoggiavo il telefono e le mettevo in vivavoce, senza ascoltarle.
Non ho mai seguito più di tanto le telefonate che mi riguardavano e men che meno quelle degli altri.
Mia moglie potrebbe parlare al telefono con l’amante in mia presenza e non me ne accorgerei.
Anche se mi sforzo di stare attento e mi dico “Stavolta ascolto cosa dicono”, la mia mente dopo pochi secondi è già perduta in un labirinto di pensieri, che magari una parola o un gesto hanno scatenato.
È che in realtà mi annoio a parlare, non sono capace a chiacchierare.
A volte rispondo al telefono facendo finta di avere la bocca piena, a qualsiasi ora, per mettere in imbarazzo la persona che mi chiama e farlo desistere dal procedere oltre.
“Stavi mangiando?” “Sì ma dimmi pure.” “No niente era un saluto.”“Mmm” è la mia risposta. “Allora ti chiamo un’altra volta”, dall’altra parte ha finalmente capito che oltre non può andare e la telefonata si risolve da sola.
Incrocio persone che non riconosco anche se probabilmente sono le stesse che incontro ogni giorno.
Sono sempre stato scarsamente fisionomista e questo mi ha creato non pochi problemi nel lavoro e nelle frequentazioni.
Come quando ero ad un aperitivo con mia moglie, lei si infallibile nel riconoscere anche una mosca se si trova a ripassare una seconda volta davanti a lei, ed è arrivata una sua collega.
Mi sono alzato presentandomi, lei mi guarda perplessa e mi dice “Guarda che ci conosciamo.
Sono stata due settimane fa a cena da voi!” Sorrisi imbarazzato senza sapere cosa dire. Non riconosco la gente che incontro ogni giorno, non so posizionarla nel suo ambiente o luogo consueti. Mi confondo, scompongo, ne altero il ricordo.
Mi chiedo se le persone che incrocio ogni giorno riconoscano me.
Se i commercianti di Viale Monza e via Padova, nel vedermi passare pensano “ah eccolo lì, come ogni giorno…ora guarda la vetrina, fissa l’interno, fa una faccia che non capisci cosa pensa e se ne va.”.
Magari nel vedermi arrivare gli viene voglia di tirare giù le serrande e rialzarle dopo che sono passato.
Più facilmente sono talmente insignificante per loro che non mi riconoscono, né badano a me.
Un quartiere di Milano è in realtà un piccolo paese, con la stessa gente, gli stessi posti da frequentare, le stesse mode.
Ma a differenza di un paese, piccolo o grande che sia, un quartiere di Milano è in grado di farti sentire straniero, di ignorarti, di isolarti.
Quando mi sono trasferito nella metropoli, come tutti quelli che non ci abitano, anche se la frequentavo spesso per lavoro e la conoscevo bene, pensavo “Come vorrei vivere a Milano, sai quante cose belle da fare, musei da visitare, ogni sera un locale diverso, concerti, teatro, mostre, le opere alla Scala…”
Invece ho scoperto che alla fine frequentavo sempre gli stessi posti, le stesse persone, ritirandomi in uno spazio delimitato dall’abitudine. Passo davanti al ristorante marocchino di Rachid, autentico come quelli che trovi nelle vie popolari di Casablanca o Rabat o in un qualsiasi piccolo paese in Marocco.
Non il ristorante falso, leccato e artefatto che propone menù e danza del ventre, con pietanze tipiche stravolte e addomesticate al gusto italiano e che non ha niente a che fare con il Marocco, quello vero, quello popolare.
Quando abitavo in Marocco, mi piaceva scoprire posti nuovi, autentici, veri, quelli che si direbbe “frequentati dalla gente del posto”, ma dei quali un occidentale non oserebbe varcare la soglia.
A Casablanca, un marocchino col quale avevo intessuto rapporti di lavoro, mai andati in porto, mi portava sempre a mangiare in posti diversi per farmi scoprire le tradizioni e le abitudini del suo paese.
Una volta l’ho invitato io in una bettola, nella zona del porto, vicino al mercato.
Un locale che non ha equivalente nelle definizioni che abbiamo noi per distinguere il ristorante dalla trattoria dalla locanda dalla tavola calda.
Un posto semplicissimo, dove cucinavano solo pesce in una cucina all’aperto nel cortile e lo servivano su tovaglie di carta, posate direttamente sul tavolino di plastica, sul quale c’erano tovaglioli, posate e bicchieri di plastica, fette di limone, sale e spezie in abbondanza.
Del pesce eccezionale, freschissimo, saporito.
Ti prendi una lattina o una bottiglietta d’acqua direttamente dal frigo e ti siedi insieme ad altre persone che non conosci.
Servono il pesce, fritto o grigliato, che si mangia perlopiù con le mani, così, semplicemente.
La reazione del mio conoscente è stata dapprima stupita, sorpresa verso questo posto.
Alla fine del pasto mi ha detto “Désormais tu es plus Casablancais d’un Casablancais”.
Rachid non è proprio così estremo come posto, ma da lui si mangia come in Marocco, dove ci vuole poco a organizzarsi, qualche tavolo, panche o sedie in plastica, una vetrina dove esporre carne o pesce da preparare, verdure già tagliate e condite.
La cucina sul retro è piccola, ingombra di pentole, padelle, tegamini e tajine.
C’è un frigo per le bibite e un lavandino per lavarsi le mani, prima e dopo il pasto, come abitudine di ogni arabo.
A qualsiasi ora Rachid ha sempre pronta una tajine.
Keftah di carne o di fegato o di pollo li prende dalla vetrina e li prepara al momento servendoli con tante verdure diverse. Come in Marocco.
Fino a qualche tempo fa non volevo sentir parlare di Africa. Per me era tutta uguale. Sporca, selvatica, incivile.
Un giorno succede che mia moglie e una coppia di amici, acquistano online un volo di quelli super scontati che ogni tanto pubblica Ryanair, senza dirmi nulla.
Era il ponte del 25 aprile o del 1 maggio di un anno che non ricordo.
Sei, sette anni fa non saprei dire perché come al solito mi ricordo le cose ma non quando sono accadute.
Per questo forse i rimpianti sono più leggeri e i ricordi tanto distanti.
Faccio la valigia con la sola indicazione di mettere roba come dovessi andare in Sicilia.
Solo all’aeroporto di Bergamo Orio al Serio scopro la destinazione: Tangeri, Marocco, Africa! Bastardi! Subito mi arrabbio e metto il muso, perché questo non me lo dovevano fare.
Pensavo che la sorpresa fosse un ponte in Grecia, in Spagna, a Creta…
Invece mi aspettavano cinque giorni di merda, già lo sapevo. Ormai ero lì, o li abbandonavo o li seguivo. Decisi di seguirli.
Feci il volo in silenzio, facendo finta di dormire e rimuginando su quello che avrei trovato in quel posto. In Africa.
Fu un volo rapidissimo, come tutte le volte che devi andare in un posto che non vuoi e in un attimo mi trovai a fare una coda, lunga, immobile, asfissiante per la dogana, in mezzo a marocchini, altro che le strade di Milano, vocianti e pressanti.
Soprattutto le donne sono le più litigiose e protestano urlando per qualsiasi cosa. Altro che sottomesse e passive.
Usciti dalla dogana fummo assaliti da altri marocchini insistenti per indirizzarci al loro taxi, ufficiale o abusivo che fosse.
Già mi scoppiava la testa ma era solo l’inizio.
Mia moglie e l’altra coppia avevano prenotato un’auto in internet ad una agenzia Hertz, lì in aeroporto. L’agenzia era chiusa.
Al numero verde Hertz consigliarono di telefonare alla loro agenzia in città. Ma al numero che fornirono non rispondeva nessuno! Benvenuti in Africa pensai.
E ovviamente lo dissi anche a voce alta.
L’addetto si fece vivo dopo un paio d’ore e incurante delle nostre, mie più che altro, proteste ci consegnò le chiavi di una Volkswagen Polo vecchio modello invece della Passat station che avevamo prenotato.
Per cambiarla dovevamo aspettare il giorno successivo e andare in un’altra agenzia perché lui aveva solo quella disponibile.
Ovviamente nelle altre agenzie Hertz delle diverse tappe del viaggio non trovammo nessuno che ci sostituisse l’auto e per cinque giorni viaggiammo in quattro con bagagli su una Polo, vecchio modello, sporca, puzzolente e piena di ammaccature.
Nelle strade regnava un traffico confuso di auto, moto cinesi, biciclette, pedoni, carretti, pullman. Tutti che si muovevano senza regole, tagliandosi la strada l’uno con l’altro.
Una mano sul volante e l’altra a pigiare il clacson, costantemente. Arrivammo a Tangeri verso sera, dopo più di cinque ore dall’atterraggio.
Andammo all’hotel che avevano prenotato, nei pressi della Medina.
Un hotel retrò, da film anni Cinquanta, ma comodo e funzionale mi trovai ad ammettere.
Dal balcone la vista era meravigliosa e spaziava fino a Gibilterra.
In quello stretto il Mediterraneo diventava oceano, le acque si mischiavano tra loro si abbracciavano, una diventava l’altra.
Si sentivano le voci e i profumi della Medina e l’aria della sera era calda ma al tempo stesso fresca e accogliente.
Mi sono innamorato del Marocco, dopo un giorno che ero a Tangeri.
E Tangeri è una versione molto annacquata del Marocco. Non mi sono certo innamorato dell’Africa, ma del Marocco sì.
Ora di quel paese mi è rimasto il gusto di andare a mangiare una vera tajine da Rachid, originario di Casablanca, i tavoli con i resti dei pasti degli altri ma tutti si lavano le mani prima di sedersi e dopo aver mangiato, una televisione sempre accesa che trasmette musica, o calcio o sintonizzata sul canale di Al Jazeera.
Mi è rimasta l’abitudine di acquistare carne Halal nella macelleria di Khaled, marocchino anche lui della zona di Berrechid. Un ragazzo giovane, la shashìa in testa e la barba sotto al mento.
Da entrambi non capita spesso che entrino clienti italiani.
Gli italiani sono tutti aperti e ben disposti all’accoglienza ma preferiscono far la spesa all’Esselunga, piuttosto che entrare in una macelleria araba.
Acquistano nei market cinesi di un certo tipo perché è di moda cucinare e mangiare asiatico.
Negli anni 80 c’era la moda dell’India e quando qualcuno ti invitava a cena era impossibile evitare il pollo al curry!!
Oggi è l’oriente a farla da padrone e la cena da amici è inevitabilmente a base di piatti pseudo cinesi, di sushi pronto comprato al Carrefour.
Sia Rachid che Khaled da quando, parlando, ho tenuto a fargli sapere che conosco e amo il Marocco, mi hanno guardato in modo diverso.
Hanno sempre mantenuto e mantengono un certo distacco, mai confidenziale, ma lo sguardo e il saluto è diverso.
Soprattutto Khaled perché non è consueto trovare un italiano che sia stato a Berrechid, zona di agricoltura, di contadini poveri, di terra dalla quale tanti sono scappati decenni fa per rincorrere il sogno dell’Europa.
Gli stessi che oggi stanno tornando al loro paese che è diventato più ricco e in pieno sviluppo rispetto all’Europa.
I marocchini, oggi, sono il popolo in testa al rientro in patria tra tutti quelli che sono emigrati.
Ma Rachid e Khaled sono ancora qui, in via Padova, con la loro piccola attività.
E ogni volta che entro o semplicemente ci passo davanti, chiudo gli occhi e respiro ancora l’atmosfera del Marocco.
Come se fossi in Boulevard Mohammed V, una delle vie centrali di Casablanca che dal porto vanno alla Medina, ricca di portici, di negozi, di gente e di commerci.
Una via che da il senso di un paese arabo, anche se moderato come il Marocco, dove fai presto a sentirti a casa per l’ospitalità di quel popolo.
Soprattutto alla sera mi piaceva percorrerla, guardarmi intorno, cercare nuovi particolari da scoprire.
Mi piaceva respirare l’odore di quella città e sentirmi addosso la brezza dell’oceano.
Mi piaceva soffermarmi davanti a piccoli locali, indovinare i menù scritti a mano su un foglio di carta appeso alla porta o col gesso su lavagne traballanti.
Molti usano vetrofanie con foto dei piatti e il prezzo in Dhiram.
Poi entri e hanno meno della metà dei piatti che hai visto in foto.
Arrivare, tra la gente, alla Medina e perdermi nel labirinto di negozi nelle strette vie, dove a volte le tende si incrociano e si sovrappongono a tal punto da creare un tutt’uno multicolore e non lasciare più vedere il cielo.
All’inizio ero continuamente fermato da commercianti assillanti che mi invitavano ad entrare a visitare il loro negozio.
A volte mi fermavo, chiedevo dei prezzi a caso e poi uscivo. Così tanto per il gusto di accontentarli. Non è vero quel che si dice che agli arabi piaccia offrirti il tè alla menta, fumare il narghilè e stare a trattare sul prezzo per pomeriggi interi. “Combien?”. “Deux milles Dhiram”. “C’est trop. Milles Dhiram”.
Se non trovano seria e onesta la controproposta, invece di trattare si voltano e se ne vanno senza salutare né degnarti di uno sguardo.
Si sentono avviliti, presi in giro, vilipesi nella loro dignità.
Dopo puoi anche dirgli “Oui ça va deux milles Dhiram…” non ti degneranno più della loro attenzione e non ti venderanno quello che ti interessava.
Altro che offrirti il tè. Sotto a uno dei portici di Boulevard Mohammed V, mi incuriosiva un baracchino dal quale saliva vapore denso e un uomo alto, ciondolante e sudato rigirava su un piano di latta qualcosa che la vetrinetta in plastica, crepata e appannata, non mi permetteva di capire cosa fosse.
Il baracchino sembrava una caldaia in piena pressione, pronta a esplodere, dietro al quale si trovava un piccolo spazio con i muri piastrellati, segnati dai tanti anni che avevano aperto crepe e fatto saltare piastrelle mai sostituite.
Tre tavolini e sedie spaiate, tutto di plastica, di colori diversi sui quali giacevano, come di consueto, avanzi di pasti altrui.
Non dava per nulla l’impressione di un posto igienico e salutare, ma ormai avevo imparato ad andare oltre le apparenze, perché dietro a quello che a noi sembra sporco, maleodorante, inavvicinabile, roba che l’ASL chiuderebbe in due minuti, si nascondono le bontà di una ricchissima e storica tradizione.
A questo aggiungo uno spirito da “Orrori da gustare” ed è fatta!
Nulla mi ferma dall’assaggiare.
La cucina marocchina non butta nulla dell’animale, usa tutto e io da buon piemontese, adoro il quinto quarto, quindi non c’è un taglio che non mi piaccia.
A forza di passare davanti a questo posto avevo quindi deciso di provarlo e scoprire finalmente cosa cucinava su quel piano di latta.
Superato lo sguardo scettico dello “chef” nel vedere un europeo che si avvicinava non per fare una foto, gli chiesi se potevo entrare a mangiare.
Non ottenni risposta. Mentre lo guardavo interrogativo e stavo per andarmene, si fece avanti un ragazzino, il figlio probabilmente. Senza dire una parola staccò un pezzo di pane dalla pagnotta che stava mangiando e me lo porse.
Lo presi, lo ringraziai e lo mangiai. Allora il ragazzino versò del tè alla menta in un bicchiere e mi porse anche quello.
Ringraziai e lo bevvi, riempiendomi del suo aroma, profumato, intenso.
A quel punto l’adulto mi fece un cenno di assenso e mi indicò la saletta con i tavolini.
È una delle più belle esperienze vissute all’estero.
Mi piace pensare a quei gesti, alla verifica di quanto fossi disposto ad avvicinarmi a loro, alla loro tradizione.
Tra mosche che ronzavano e resti di cibo sul tavolino ho consumato il miglior guanciale che abbia mai mangiato.
Tenero e succoso, saporito, speziato di cumino. Era guanciale quello che l’uomo cucinava su quel piano, al calore dell’acqua bollente e del vapore che saliva da un foro al centro ed era l’unica cosa che proponeva il menù. Quando ho raccontato, orgoglioso, questa esperienza a Rachid, mi ha guardato indifferente, non ha commentato e mi ha chiesto “Cosa ti porto?”
Come è nata l’idea di questo libro?
Il libro è nato da solo. Ho iniziato a scrivere ed è venuto così. Ce l’avevo dentro.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Ho scritto subito il primo capitolo e l’epilogo. Poi capitolo dopo capitolo, senza pensare a una struttura, a cosa scrivere nè a come scriverlo, sono arrivato a completarlo. In tre mesi avevo finito.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Ho letto molto e riletto i classici. I promessi sposi sono la pietra migliare di qualsiasi testo mai scritto. Hemingway, Dos Passos, Kerouac, ma anche gli scrittori italiani del Novecento.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Milano e sono nato in un paesino in campagna. Ma ho abitato in montagna, al lago, in provincia e anche all’estero.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ho terminato un romanzo che è in attesa di pubblicazione e continuo a scrivere.
Dai un voto a questo articolo