NATURA E CARATTERI DEL PRINCIPIO di AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI

NATURA E CARATTERI DEL PRINCIPIO di AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI

Redazione, 18 ottobre 2024. A cura dell' MNLS (Movimento Nazionale di Liberazione della Sardegna)

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Il principio di autodeterminazione dei popoli, così come riconosciuto dall'ordinamento giuridico internazionale, è definibile “lato sensu” come il diritto di un popolo ad autogovernarsi libero dal giogo straniero, il che comporta per lo stesso popolo una piena facoltà di scelta del suo regime politico, economico e sociale, compresa la possibilità di essere rappresentato da un proprio Governo, ovvero di distaccarsi da uno Stato per andarsi a incorporare in un'altra formazione sovrana.

Non deve meravigliare, allora, come il principio in parola abbia da sempre fornito un potente supporto ideologico alle istanze di quanti rivendicano la propria indipendenza, divenendo pure costante argomento in mano alle minoranze stanziate sul territorio di uno Stato, che pretendono d'invocare la propria autonomia e un correlativo diritto alla secessione.

Tralasciando ogni valutazione sociale e politica del fenomeno, diviene ineludibile compito dell'interprete chiarire la reale portata del principio, definendo i caratteri e la natura che esso riveste nella Comunità degli Stati, a fronte, peraltro, delle tutt'altro che univoche posizioni al riguardo assunte dalla dottrina.

É questa un'operazione da condursi con la massima prudenza, vista innanzitutto la difficoltà di accedere a una determinazione assoluta della nozione di popolo, normalmente definito come una pluralità d'individui legati da comuni caratteri etnici, culturali, religiosi, storici e linguistici.

In una tale accezione, il termine Popolo tende, poi, a confondersi con l'ulteriore concetto di Nazione, di non facile e sicura definizione e di certo permeato da un elevato grado di relatività.

A questo punto, però, una doverosa precisazione preliminare s'impone; né i popoli, né le nazioni e neppure i singoli individui che li compongono possono essere considerati quali soggetti di diritto internazionale.

Nonostante le profonde trasformazioni che hanno caratterizzato, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, la Comunità internazionale ( di seguito: la “CI”) e che hanno portato a una cospicua affermazione dei diritti dell'uomo, predomina ancora oggi una concezione diplomatica del diritto internazionale.

Lo Stato rimane il principale soggetto della CI e la personalità giuridica internazionale può essere ulteriormente attribuita con sicurezza, oltre ai Governi, solo a quei fenomeni associativi che, da questi originati, danno vita a delle Organizzazioni internazionali (di seguito: le “OI”).

Cosicché, ogni qual volta si configurino norme internazionali che sembrerebbero attribuire agli individui o ai popoli dei diritti (come nel caso dell'autodeterminazione) – si rappresentano, invero, dal punto di vista dogmatico, dei “diritti riflessi” che consistono in mere posizioni di vantaggio che il loro titolare si ritrova a godere quale effetto indiretto di determinati rapporti giuridici intercorrenti tra soggetti differenti.

Rispetto a siffatte norme, pertanto, Popoli e Individui risultano essere semplici beneficiari materiali di fatto di situazioni giuridiche soggettive che competono ad altri (agli Stati o alle OI).

Ne deriva che il reale titolare del diritto all'autodeterminazione mai potrebbe considerarsi il popolo in quanto tale, trattandosi invece di un diritto che compete alla CI, nel suo insieme considerata.

Perciò, il titolare della correlativa situazione soggettiva passiva è rappresentato dalla potenza straniera che detiene un territorio nel
dispregio del principio di autodeterminazione e sulla quale, pertanto, grava una corrispondente obbligazione “erga omnes”.

Questa relazione giuridica, che descrive il contenuto del principio de quo, ha trovato la sua prima, compiuta affermazione nella Carta delle N.U. agli artt. 1 e 55 che pongono tra i fini principali della massima organizzazione mondiale quello, appunto, di promuovere l'autodeterminazione dei popoli.

Ribadito in numerosi importanti strumenti internazionali - quali, ad esempio, la Dichiarazione dell'Assemblea generale delle NU (di seguito: “Ag.”) sull'indipendenza dei popoli coloniali, del 1960 o i due Patti delle NU sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali dell'uomo, del 1966 15 o ancora l'Atto finale della Conferenza di Helsinki per la sicurezza e la cooperazione in Europa, del 1975 - il principio in questione risultava inizialmente concepito come una norma di soft law, dal valore meramente esortativo e, dunque, priva di portata precettiva.

Successivamente, sotto la spinta della giurisprudenza internazionale, si è assistito a una sostanziale metamorfosi del principio che ha finito con l'assumere i connotati di una vera e propria norma vincolante per la Comunità degli Stati.

Vengono al riguardo in rilievo (tra le tante) le pronunce della Corte internazionale di giustizia sul caso della Namibia, del 21 giugno 1971, su quello del Sahara occidentale, del 16 0ttobre 1975, sull'affare relativo al Timor orientale, del 30 giugno 1995, ove la regola sull'autodeterminazione risulta definita come uno dei principi essenziali del diritto internazionale, con valenza erga omnes.

Questo complesso processo evolutivo ha originato, così, una vera e propria norma consuetudinaria elevata al rango di una regola imperativa, come peraltro di recente ribadito pure dalla Commissione di diritto internazionale, nel suo recentissimo studio sullo ius cogens.

Tutto ciò, peraltro, ha determinato contestualmente delle rilevanti modifiche non scritte della Carta NU.

Si pensi, in 1° luogo, a quell'importantissima deroga al fondamentale divieto di uso della forza internazionale solennemente sancito dall'art. 2, par. 4 della Carta, attribuendosi ora agli Stati terzi la possibilità di sostenere militarmente quei movimenti di liberazione nazionale che lottano per il conseguimento dell'autodeterminazione di un popolo, di per sé a sua volta legittimato a combattere con le armi (right to struggle) per conseguire la propria libertà.

Va considerato poi, nel silenzio della Carta NU, l'oramai acquisito potere da parte dell'Ag. di determinare, con efficacia vincolante, tempi e modalità attraverso cui un popolo sottomesso a dominazione coloniale deve pervenire all'indipendenza.

Alla prova dei fatti, il principio in esame ha rappresentato un potente volano per la pressoché compiuta realizzazione del processo di decolonizzazione che, rientra tra i fini principali delle NU.

Tuttavia, occorre rammentare come la norma internazionale de qua risulti concepita in termini assolutamente generali, ovvero a beneficio di qualunque popolo, anche  squisitamente metropolitano e non solo sottoposto a dominio coloniale.

Questa prima conclusione è avvalorata dalla prassi internazionale e dalla esegesi delle rilevanti norme che per l'appunto si riferiscono a tutti i popoli.

In estrema sintesi, deve ritenersi allora che del principio di autodeterminazione possano avvantaggiarsi sul piano internazionale:

(A) I popoli sottoposti a dominazione coloniale;

(B) quelli assoggettati a una dominazione militare;

(C) nonché quei gruppi sociali minoritari che si vedono messi da parte dal partecipare alle decisioni di uno Stato, come peraltro efficacemente evidenziato, nel 1998, dalla Corte Suprema canadese, riguardo alle pretese secessionistiche del Québec.

Il principio di autodeterminazione incontra, però, dei precisi limiti applicativi di varia natura.

Un primo riguarda la sua mera “portata esterna”, con conseguente irrilevanza dell'assetto politico organizzativo interno che un popolo si dà per autogovernarsi.

Il principio di autodeterminazione si è affermato, infatti, come diritto della CI a che tutti i popoli siano liberi dal controllo di una potenza straniera.

Per converso, rimane un'istanza meramente utopistica l'immaginare che, ad oggi, possa ricostruirsi un diritto all'autodeterminazione interna, inteso come diritto del popolo all'autogoverno democratico, a meno che non si vogliano considerare fuori legge tutti i numerosi Stati sovrani d’ispirazione a dir poco dittatoriale.

Più precisamente, la supposta ricostruzione di un'ulteriore “portata interna” del principio in parola non farebbe altro che proiettare in una dimensione collettiva le esigenze del rispetto dei diritti umani dei singoli collegati alla loro partecipazione alla vita politica dello Stato che, invece, per le ragioni anzidette, non hanno (ancora) ricevuto un pieno riconoscimento da parte della CI.

Non esiste, dunque, un generale diritto alla democrazia (che speriamo sia al di là da venire).

Perché il principio di autodeterminazione possa dirsi soddisfatto, basta che il popolo sia governato da sue proprie forze prevalenti, indipendentemente dal fatto che queste siano o meno ispirate da principi democratici.

Un ulteriore limite all'applicazione del principio è di natura temporale e inerisce alla sua irretroattività con riguardo a situazioni metropolitane (e non coloniali), determinatesi prima dell'entrata in vigore della Carta delle NU.

Si richiede in questi casi che la dominazione straniera non risalga oltre l'epoca in cui il principio di autodeterminazione si è affermato nella CI.

Non è ricostruibile, infatti, una volontà della Comunità degli Stati di mettere in discussione il suo complessivo assetto territoriale.

Da questo punto di vista il principio di autodeterminazione va, difatti, bilanciato con la fondamentale regola che impone il rispetto dell'altrui integrità territoriale da parte di tutti i soggetti di diritto internazionale.

CONCRETIZZAZIONE DEL DIRITTO ALL'AUTODETERMINAZIONE DELLE MINORANZE

merita l'esatta individuazione della sfera di applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli con riguardo alle cd. Minoranze.

Il suddetto principio non deve essere inteso nel senso di legittimare qualunque rivendicazione secessionistica di gruppi, etnie, regioni etc., per quanto simili formazioni possano risultare + o - (socialmente e storicamente) distinguibili dalla maggioranza della popolazione dello Stato che l'ingloba.

Il problema delle minoranze etnico - linguistiche nasce dalla imperfetta affermazione del principio di nazionalità.

Può accadere, infatti, che comunità più o meno estese rispetto all'assetto complessivo delle Stato si vedano sottoposte a un ordinamento in cui non trovano la loro espressione primaria.

All'atto pratico, perché tali questioni siano rilevanti sul piano diplomatico, si richiede che nelle immediate vicinanze del Paese che le ospita vi sia uno Stato nel quale la stessa minoranza risulti maggioritaria (come nel caso italiano dell'Alto Adige, data l'esistenza del vicino Stato austriaco).

Tali problematiche vengono normalmente risolte attraverso la conclusione di accordi ad hoc tra quest'ultimo Stato e quello che le controlla, tesi a assicurare l'autonomia culturale e linguistica della minoranza.

I primi accordi in materia risalgono al periodo immediatamente successivo alla conclusione della Grande Guerra, con cui gli Stati interessati accettavano che taluni diritti delle minoranze, come quello all'uso della propria lingua madre, fossero sotto il controllo della Società delle Nazioni.

Emblematico in tal senso fu l'accordo concluso tra la Polonia e le Potenze alleate e associate del 2 giugno 1919.

Occorre però considerare che, indipendentemente da simili patti, l'ordinamento giuridico internazionale attribuisce alla minoranza il diritto al rispetto delle proprie radici culturali linguistiche e religiose, confermato, sul piano generale dall'art. 27 del Patto delle NU sui diritti civili e politici, nonché dalla Dichiarazione dell'Ag. sui diritti delle persone appartenenti a detti gruppi, del 1992.

A livello regionale vanno segnalati, poi, la Convenzione - quadro per la protezione delle minoranze nazionali del 1º febbraio 1995, promossa dal Consiglio d'Europa e ispirata sostanzialmente all'affermazione dei medesimi principi, nonché l'art. 14 CEDU, che vieta qualsiasi discriminazione in ragione dell'appartenenza a una minoranza.

Beninteso, non diversamente da quanto già rilevato con riguardo ai popoli, deve categoricamente escludersi la possibilità di riconoscere una personalità giuridica internazionale in capo alla minoranza.

Pure in questo caso, quindi, le norme che a esse si riferiscono finiranno con l'attribuire loro dei meri “diritti riflessi”, rispetto ai quali le stesse minoranze potranno solo qualificarsi alla stregua di semplici beneficiari materiali di fatto.

Perciò il combinato disposto di detto quadro normativo con il principio di autodeterminazione induce a ritenere che la minoranza sia legittimata a invocare sul piano internazionale la propria indipendenza qualora risulti mortificata nella sua effettiva partecipazione alla vita politica dello Stato che l'ospita: perché non le viene consentito di prendere parte alla sua gestione tramite propri rappresentanti o, ancor peggio, in quanto vittima di un apartheid.

Ma è appena il caso di dire che non si può sostenere l'esistenza di un diritto all'autodeterminazione interna della minoranza, quando viene esclusa dalla determinazione delle scelte politiche dello Stato cui afferisce, pure se queste dovessero portare all'instaurazione di un regime non-democratico.

In altri termini, basta che gli esponenti della minoranza compartecipino alla determinazione della volontà prevalente dello Stato, anche se non vi è l'effettivo rispetto dei diritti dei singoli individui che ne compongono la base sociale.

POSTILLA SUL CASO CATALANO

Alla luce delle suesposte considerazioni, può allora concludersi nel senso che non esiste un generale diritto alla secessione della minoranza (c.d. remedial secession), come ben evidenziato dalla Corte costituzionale canadese, nella pronuncia relativa alle pretese indipendentistiche del Québec.

Quanto rilevato offre lo spunto per valutare la situazione catalana.

Dovrà riconoscersi, così, che il principio di autodeterminazione non può essere invocato dalla Catalogna, in quanto ha una piena partecipazione alla vita politica del Regno di Spagna.

Qualunque rivendicazione autonomistica da parte del supposto “popolo catalano” al Governo di Madrid rimane un affare interno alla Spagna, che mai potrebbe trovare nel diritto internazionale un appiglio giustificativo, se non al prezzo di aprire un'irreversibile breccia nella sicurezza delle relazioni della stessa Comunità Internazionale.