Sono questi i momenti in cui `Capitalism: a love story` parla in maniera più eloquente. In altri passaggi, il messaggio appare invece un po’ meno chiaro. Moore crede che il capitalismo sia un sistema che pretende una ricompensa per l`aver permesso la libera impresa, ma nei fatti premia in concreto solo l’avidità. Il regista ci dice che questa è la causa primaria dell’accumulo di benessere ai piani alti della società statunitense (in particolare): l’1% degli americani più ricchi possiede infatti di più del 95% di quelli più poveri messi insieme.
Ma cosa si dovrebbe fare allora per risanare l`economia? Moore di sicuro non consiglia il socialismo. Il regista ha fede nell’urna elettorale, ma pensa lo stesso che Obama sia stato troppo rapido nel placare iI ricchi e che non sia in definitiva arrivato a sostanziali riforme. L’arma principale che Moore impiega è quindi la vergogna, mostrando come istituzioni finanziarie e corporazioni continuino a sfruttare la gran parte degli americani, senza che nessuno dica nulla.
Sono due però le rivelazioni scioccanti che fa Moore: la prima coinvolge un`attività chiamata “assicurazione sul contadino morto` (“dead peasant insurance`.) In pratica le aziende possono stipulare assicurazioni sulla vita dei loro dipendenti, così da poter riscuotere i benefici quando questi ci `lasciamo le penne`. Si tratta forse dell`unica tra le forme di assicurazione dell’impiegato con la quale le aziende non hanno problemi. E ovviamente le società solitamente non informano il coniuge `superstite` riguardo i soldi che hanno intascato dalla dipartita.
La seconda riguarda quello che viene considerato un azzardo temerario e immorale, che prende il nome di `derivati`. Pare che questi contratti siano così complessi che nemmeno gli autori del software che li elabora riescono a comprenderli pienamente. Moore domanda infatti a tre esperti di spiegarglieli, ma tutti e tre falliscono nell’impresa. Per fare un esempio, potrebbero comprendere scommesse piazzate sulle aspettative che ci sia un default sui mutui. Se si sbaglia, la scommessa paga. Ma se non si sbaglia? Gli investitori possono coprire le loro scommesse, puntando sullo sbaglio, e così pensano di poter vincere in entrambi i casi. I mutui sono la garanzia per queste scommesse. Moore evidenzia come questi vengano `affettati e tagliati a cubetti e sparsi qua e là`.
Il regista ha poi un colloquio con la Repubblicana Marcy Kaptur (D-Ohio), che consiglia ai suoi elettori di non muoversi se una banca li pignora, ma di farsi consegnare una copia dell`ipoteca. In molti casi, gli istituti non sono infatti in grado di produrre tale documento.
Spesso si è parlato dell`inettitudine dei proprietari di casa che hanno ottenuto mutui che tuttavia non potevano permettersi. Moore ci dice che in realtà i due terzi di tutti i fallimenti americani personali sono causati dal costo delle cure sanitarie, sottolineando come solo poche persone possano permettersi una malattia prolungata negli USA.
Il film risulta decisamente più efficace quando racconta o rivela questo tipo di realtà. E’ invece meno efficace, ma forse più divertente, quando ci mostra Michael Moore che fa il `Michael Moore`. E` evidente come gli piaccia la `prima linea`, si veda quando a Wall Street usa il megafono per chiedere indietro i soldi o quando usa il nastro giallo tipico delle scene del crimine della polizia per recintare la Borsa. Si può odiare o amare per questo, ma di sicuro un po` di credito gli va riconosciuto, perchè è riuscito a catturare l`attenzione delle persone come nessun altro documentarista prima di lui.
Moore in fondo è un ragazzo della `working class`, senza istruzione universitaria, ancora con il cappellino da baseball e i pantaloni cadenti, capace di provare compassione per le vittime, basti guardarlo mentre conversa con un uomo che ha scoperto che il datore di lavoro di sua moglie stipula `assicurazioni sul contadino morto` o ascoltarlo mentre parla con una famiglia che sta per perdere la fattoria dopo quattro generazioni.
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