LE DIATRIBE TRA GLI ALFIERI DELLA `MUSICA D`ARTE` E QUELLI DELL` `ALTRA MUSICA`...

Milano, 21 agosto 2021. Di Luca Cerchiari, Musicologo, Critico Musicale, Accademico. Agli inizi della sua vicenda, lo studio delle musiche “popolari”, che risale in senso moderno alla fine dell’Ottocento e al secondo dopoguerra, ha assunto la denominazione di etnomusicologia, prestava grande attenzione alle forme degli altri Continenti, viste da un osservatorio essenzialmente europeo.

LE DIATRIBE TRA GLI ALFIERI DELLA `MUSICA D`ARTE` E QUELLI DELL`  `ALTRA MUSICA`...

Gli esperti tendevano a confrontare i nostri sistemi sonori e culturali con quelli degli altri, dando luogo a una musicologia “comparata”; le musiche europee erano riservate ai “folkloristi”.

Fondamentali furono, soprattutto in area austro-tedesca, francese e inglese, scritti e contributi sull’Egitto, l’Africa nera, l’Asia vicina e lontana, e infine le Americhe.

Se ne portavano alla luce le diversità, le ricche tradizioni vocali, coreutiche e strumentali, i differenti criteri ritmici, i rapporti tra suoni e riti religiosi e comunitari, tra feste e occasioni di condivisione sociale. Sono passati decenni e i contributi su queste aree vastissime delle tradizioni orali sono aumentati e cresciuti di peso e rilevanza.

L’etnomusicologia italiana, oggi ampiamente diffusa nei piani di studio di Conservatori e Atenei, è partita da una ricognizione sulle proprie radici (ricerche sul campo, registrazioni, analisi, spesso in rapporto ad altre discipline, come l’antropologia, la storia delle religioni, la dialettologia), prendendo cioè in considerazione la ricca ma sconosciuta tradizione musicale del meridione e delle aree centro-settentrionali della penisola.

Solo dagli anni Ottanta, dopo che il lavoro di fondazione disciplinare è stato svolto da Giorgio Nataletti, Diego Carpitella e Roberto Leydi, gli studiosi italiani hanno iniziato a fare ricerche sulle tradizioni europee ed extra-europee.

Dell’Asia si sono occupati Giovanni Giuriati (Cambogia, Bali) e Giovanni Sestili (Cina, Giappone), mentre la vastissima area medio-orientale coincidente con la civiltà islamica è divenuta oggetto degli studi di Giovanni De Zorzi.

Docente di etnomusicologia a Venezia da più di un decennio, flautista e leader di gruppi dediti alle tradizioni iraniani e turche, De Zorzi è un autore dal denso curriculum, di peso internazionale.

Tra i suoi ultimi lavori spicca Maqam (Squilibri), ampio affresco dedicato alle musiche dell’area islamica.

Ma a meno di due anni da quel volume eccone un altro, stavolta edito dall’Istituto Nallino di Roma (*).

Si tratta di una ambiziosa ed efficace introduzione alle musiche islamiche, viste anche nei loro molteplici rapporti con gli studi orientalistici, religiosi e poetico-letterari, che aiutano a meglio contestualizzare forme e repertori affascinanti ma dei quali si rischia talora di non cogliere i principi ispirativi, lo sfondo culturale.

Giovanni De Zorzi è un esperto di strumenti musicali, e ad essi (liuti, arpe, cetre, vielle, flauti, tamburi, piatti e così via) dedica una sostanziosa porzione del suo volume, che nel prosieguo prende in considerazione le molte forme musicali scaturite da ambiti religiosi, le musiche marziali, e in conclusione, allineandosi a una parte degli studi etnomusicologici attuali, anche le musiche urbane riferibili al cosiddetto mondo del pop e rock, che nelle sue intersezioni molteplici con le tradizioni più antiche stanno offrendo da anni esempi innumerevoli di un’efficace rifunzionalizzazione delle tradizioni, acustiche e non urbane.

Un punto sul quale De Zorzi insiste ripetutamente, e a ragione, è quello relativo alla difficile distinguibilità e separazione, in ambito orientale, tra musiche scritte ed orali.

Di fatto, come sottolineava lo studioso veneziano già nel precedente volume Maqam, musica scritta e di tradizione orale, in Oriente, vivono vite parallele e spesso intrecciate.

Del resto, si tratta di un aspetto comune a tutte le musiche mondiali: il jazz è spesso scritto, e persino la musica detta “classica” ha aspetti significativi di oralità, come l’improvvisazione pianistica ottocentesca.

Capire a fondo questo problema (ricordando, peraltro, che la scrittura musicale è pervenuta all’Occidente, a noi, dall’Oriente, dove è nata per prima) può quindi anche aiutare a superare le diatribe tra gli Alfieri della Musica d’Arte e quelli dell”altra musica”, che, vista per decenni con disprezzo, si sta ora prendendo delle “rivincite”.

Mentre, per motivi estranei a entrambi i partiti, la musica scritta, o eurocolta, o classica, sta rischiando, in modo drammatico (e per le sue modalità e per le sue conseguenze), di scomparire dal panorama sociale del mondo.

O quantomeno, i dati sono incontrovertibili, dal mercato.

(*)Giovanni De Zorzi, Introduzione alle musiche del mondo islamico, Istituto per L’Oriente Carlo Alberto Nallino, Roma 2021