LA SUPER CASSA PER I PROFESSIONISTI

LA SUPER CASSA PER I PROFESSIONISTI

Trento, 3 giugno 2024. Di Paolo Rosa, avvocato.

Notizie di stampa informano che il CNEL [Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro - ndr] sta lavorando alla riforma delle Casse autonome dei professionisti per unificarle.

L’idea trae la sua origine in un articolo del prof. Giuliano Cazzola del 2013 che qui trascrivo:

«Una Cassa previdenziale unica per i professionisti

«Ceterum censeo Carthaginem delendam esse».

Raccontano che queste fossero le parole con cui Catone finiva ogni suo intervento al Senato della Repubblica (SPQR) prima che i Romani decidessero di arrivare alla soluzione finale con Cartagine.

I lettori perdoneranno questa mia impennata di superbia (del resto che politically (in)correct sarei?) che mi porta a paragonarmi a Catone (il quale, pare, ce l’avesse tanto con i Cartaginesi soltanto perché, essendo un armatore, temeva la loro concorrenza per i traffici nel Mare nostrum), senza, peraltro, aver conseguito – diversamente da lui – il risultato a cui aspiravo.

Eppure, ogni volta che, nei miei vari ruoli, sono stato invitato ad esporre le mie idee sulla previdenza e le pensioni, ho sempre finito i miei discorsi con questa frase, ormai divenuta consueta: «Infine, penso che per le Casse privatizzate dei liberi professionisti si debba aprire un processo di unificazione».

E finivo il ragionamento aggiungendo: «A partire, ovviamente, dall’unificazione, magari con gestioni separate, di quelle istituite sulla base del d.lgs. n.103 del 1996, che fin dall’inizio applicano le medesime regole del calcolo contributivo, hanno pochi iscritti e già conoscono nel proprio ambito l’esperienza di una cassa intercategoriale».

Man mano che passava il tempo risultava sempre più evidente la sproporzione, da un lato, tra la costruzione (alla fine compiuta almeno sulla carta) di un superInps, che, incorporando, con l’eccezione dell’Inail, tutto quanto è previdenza obbligatoria fuori dal mondo delle libere professioni (ma è proprio il caso di parafrasare il classico “Nebbia sulla Manica, il Continente è isolato”), si avviava a diventare uno dei più grandi se non il più grande ente previdenziale del Pianeta e, dall’altro, la permanente ed accanita balcanizzazione (una ventina di Casse, tra quelle storiche – compresa una, l’Inpgi, a cui sono iscritti i giornalisti che sono lavoratori dipendenti pur appartenendo ad un ordine – e quelle di nuova istituzione) della c.d. previdenza privatizzata riguardante il sistema, anch’esso obbligatorio, dei liberi professionisti (con ordini e collegi), sottoposti a metà degli anni Novanta (d.lgs. n. 509 del 1994 e d.lgs. n.103 del 1996) a un regime di autonomia ed autogoverno vigilati in vari modi dal governo proprio per assolvere nel tempo al ruolo che esse svolgono, riconducibile a quanto previsto dall’articolo 38 Cost.

Il problema della fusione tra le gestioni obbligatorie (a partire da quella da tempo matura ma abortita tra le Casse dei ragionieri e dei commercialisti) venne già posto dal comma 36 dell’articolo 2 della riforma Maroni: «Gli enti di diritto privato – recita la norma – di cui ai decreti legislativi n.509/1994 e n.103/1996, possono accorparsi fra loro, nonché includere altre categorie professionali similari di nuova istituzione che dovessero risultare prive di una protezione previdenziale pensionistica, alle medesime condizioni di cui all’articolo 7 del d.lgs. n.103/1996».

In sostanza, il legislatore del 2003 propose alle Casse ‘privatizzate’ una precisa via da seguire, ferma restando la loro autonomia: allargare la base dei contribuenti sia mediante una politica di alleanze sia attraverso l’inclusione di altre categorie prive di copertura obbligatoria.

La ragione di questo indirizzo programmatico è presto spiegata. Lo stato di salute di un regime pensionistico dipende da un indicatore molto semplice: il rapporto tra gli iscritti contribuenti e i trattamenti pensionistici erogati.

Quando tale rapporto si deteriora, nel senso che il numero dei contribuenti si allinea con quello delle pensioni, la gestione va in crisi, tanto più se si tratta di uno schema di tipo retributivo (come accade, in generale, nelle Casse tradizionali dei liberi professionisti).

È una malattia genetica della previdenza a ripartizione (una caratteristica che non viene meno anche nel caso di calcolo contributivo) da cui nessuna realtà è immune. Più la gestione è di modeste dimensioni più è a rischio di subire processi di squilibrio, perché man mano che passa il tempo aumentano i pensionati e diminuiscono gli attivi.

La figura del libero professionista, poi, non è solo il frutto di una legittima propensione degli interessati, ma è condizionata dal concorso di almeno due elementi estranei: l’ordinamento universitario e quello professionale, ambedue definiti dal legislatore, con un occhio alle normative Ue.

Si tratta di requisiti essenziali per definire i confini delle categorie libero professioniste. Ambiti di riferimento più vasti per quanto riguarda i soggetti contribuenti (derivanti dall’accorpamento di più Casse o dall’inclusione di nuove categorie) fornirebbero, in linea di massima, maggiori garanzie per il futuro, nel senso che la contrazione di una tipologia professionale potrebbe essere compensata da un ampliamento di altre.

Certo, per realizzare operazioni siffatte è necessario armonizzare le regole, mediante un coraggioso programma di riforme dei trattamenti, fermo restando che, per la fase di transizione, si può far ricorso alla prassi – altrove consolidata – delle contabilità separate.

Ma da questo orecchio i gruppi dirigenti delle Casse privatizzate non hanno mai voluto sentire ragioni. Siamo arrivati al caso limite della grande “incompiuta” tra le Cassa dei ragionieri e periti commerciali e quella dei Commercialisti.

È accaduto infatti – ormai è trascorso più di un decennio – che la figura professionale del ragioniere e perito commerciale sia scomparsa dall’ordinamento e che alle persone che, in futuro, avessero voluto abbracciare questa attività sarebbe stata richiesta la laurea.

Sarebbero dovuti diventare, cioè, dei dottori commercialisti. Pertanto la Cassa dei ragionieri era condannata a morte, avendo il bacino dei contribuenti la prospettiva di esaurirsi nel tempo perché privo di nuove adesioni.

Logica e coerenza avrebbero voluto che le due Casse si fondessero (in tal senso disponeva anche una norma di delega che non ha mai trovato attuazione). L’operazione – nonostante tutti i tentativi – non ha mai avuto esito favorevole a causa dell’ostinata opposizione dei Commercialisti.

Chi scrive, nel suo ruolo di parlamentare, si è battuto con tutti i mezzi a disposizione, sia a livello di iniziativa legislativa che di sindacato ispettivo, per l’unificazione delle due Casse, scontrandosi duramente con la lobby dei commercialisti, senza riuscire a raccogliere alcunché di diverso degli insulti e degli sberleffi.

Ricordo persino che il governo diede parere sfavorevole (cosa che non succede quasi mai) ad un mio ordine del giorno che auspicava l’unificazione delle due Casse. Ad estremi mali, estremi rimedi. Divenni, allora, nella passata legislatura, il sostenitore del “super-INPS delle Casse privatizzate”, convincendo un mio collega, l’on. Aldo Di Biagio, a presentare, come primo firmatario, un progetto di legge (AC3522) per l’istituzione dell’Enpalp (Ente nazionale di previdenza ed assistenza delle libere professioni), ripresentato nell’attuale legislatura al Senato. Quella dell’ente unitario più che una “provocazione” era e rimane una sfida, provvista di una base di praticabilità che non ho difficoltà a ritenere degna di approfondimento.

Tutti questi enti professionali, operanti ciascuno per sé, non sono in grado di sopravvivere in mancanza di solidarietà reciproca; e se sopravvivono, vanno di sicuro incontro a criticità, una volta che si rovescerà il rapporto tra attivi e pensioni come accade in tutti i sistemi maturi, soprattutto se sono di dimensioni chiuse e limitate. Un “Inps dei professionisti”, invece, potrebbe risolvere davvero tante difficoltà e sarebbe lo sbocco naturale del processo di privatizzazione avviato tempo addietro.

Soprattutto, insegnerebbe ai liberi professionisti ad essere solidali tra di loro, senza peraltro determinare delle indistinte ammucchiate, poiché ogni Cassa, nell’Enpalp, conserverebbe la propria autonomia amministrativa e gestionale, come del resto, avviene da sempre nelle 30 e più gestioni dell’Inps. Ma vi sarebbe un bilancio unitario (ovvero un bilancio consolidato per dirlo in termini privatistici) in grado di compensare i disavanzi di una gestione con gli avanzi di un’altra.

Ovviamente, la cosa venne vissuta come una provocazione vera e propria. Ero diventato, tra tutti i professionisti d’Italia, l’uomo che voleva privarli della loro Cassa. Non mi riuscì neppure un tentativo indiretto, quando la riforma Fornero (solo Elsa Fornero era ‘’odiata’’ più di me dai gruppi dirigenti delle libere professioni perché, anche da studiosa, si era distinta per dire, scrivere e dimostrare che, nel futuro delle Casse, c’era soltanto una prospettiva di insostenibilità) aveva imposto alle Casse privatizzate di presentare bilanci attuariali sull’andamento delle entrate e delle uscite nell’arco di un cinquantennio, tenendo conto solo dei rendimenti reali dei patrimoni.

La mia proposta consisteva nel ammorbidire queste regole molto severe a favore di quelle Casse che accettassero di fondersi. Fu solo un altro fallimento. Ma le idee giuste sono come le palle spinte sott’acqua: tornano spontaneamente a galla. Ed anche alle persone politically (in)correct capita ciò che succede agli orologi rotti: almeno due volte al giorno segnano l’ora giusta. Sabato 9 novembre un titolo a pag. 25 del Sole 24 Ore (Per i professionisti una Cassa a più gestioni) ha attirato la mia attenzione. Si parla di un convegno svoltosi a Pisa promosso dall’Anc (Associazione nazionale commercialisti) a cui hanno partecipato 950 professionisti provenienti da tutta Italia.

L’Anc è essenzialmente espressione dei giovani commercialisti su cui gravano in particolare gli effetti della riforma del settore con l’introduzione del calcolo contributivo. Nel convegno la proposta centrale è stata quella dell’istituzione di una previdenza privata centralizzata ovvero di un’unica Cassa delle professioni.

Gli argomenti a sostegno di tale proposta e di contestazione delle critiche sono state molto semplici e convincenti: «Abbiamo proposto un unico ente di previdenza dei professionisti – ha dichiarato il presidente dell’Associazione Marco Cuchel – perché è l’unico modo per mitigare le curve demografiche che ciclicamente vivono le professioni». E a chi gli replicava che entrare nel sistema pubblico avrebbe messo a rischio il patrimonio delle Casse (50 miliardi) il presidente ha risposto: «Se esiste la volontà di assorbire la previdenza privata (il termine più corretto sarebbe “privatizzata”, ndr) in quella pubblica non credo che farà gran differenza essere uniti o separati. Di contro – ha aggiunto Cuchel – unirsi può rendere il sistema più efficiente e potremmo far nascere un welfare integrato. Inoltre, l’equilibrio... si trova nei grandi numeri». Che altro dire? Anche i cammini più lunghi cominciano sempre con un primo passo.» (Fonte: Una Cassa previdenziale unica per i professionisti di Giuliano Cazzola, in Politically (in)correct, www.bollettinoadapt.it del 4 novembre 2013).

L’idea è trasversale a tutte le forze politiche e quindi è probabile che possa andare in porto.

A mio parere, come ho già scritto in precedenza, costituirebbe il primo passo verso il rientro nel pubblico.

Insorge il Presidente di Enpam e di Adepp per il quale “Le Casse di previdenza non sono un bancomat. Sono investitori pazienti, lungimiranti e responsabili, ma dobbiamo sempre essere correttamente liquidi per le prestazioni e per poter investire sul nostro Paese ma non solo, dobbiamo anche differenziare per garantire sempre un rendimento adeguato ai nostri iscritti. Una base contributiva più ampia garantirebbe meglio il sistema? Basta guardare i nostri dati e confrontarli con il sistema previdenziale pubblica per smentire l’assioma” (Fonte Corriere della Sera del 03 giugno 2024).

Ora il Senato della Repubblica il 27 febbraio 2024 ha approvato il disegno di legge cd “capitali” il quale all’art. 15 ha aggiunto anche le Casse di previdenza dei professionisti agli investitori istituzionali.

Il Presidente dell’Adepp dovrebbe pubblicare l’entità del debito latente, Cassa per Cassa, e il relativo funding ratio (il funding ratio è una misura del livello di capitalizzazione degli enti previdenziali e rappresenta il livello di copertura da parte dell’attivo sulle passività maturate. Non a caso, nello schema di decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanza sugli investimenti per le Casse, che si attende dal 2011, l’art. 6 sul prospetto informativo a valori correnti prevedeva che: “l’ente approva annualmente, secondo gli stessi termini relativi al bilancio d’esercizio, un prospetto recante l’esposizione delle attività detenute, determinate a valori correnti. Il prospetto riporta anche indicazioni sul valore attuale netto delle passività connesse alle prestazioni istituzionali dell’ente, calcolato secondo criteri coerenti con quelli posti a fondamento della valutazione a valori correnti delle attività detenute e comunque precisando tutte le ipotesi di lavoro utilizzate in detto computo”)

per dimostrare agli iscritti che tra 15/20 anni il saldo previdenziale (differenza tra entrate per contributi previdenziali e uscite per prestazioni erogate) delle Casse sarà negativo e le pensioni saranno garantite, se positivo, dal rendimento del patrimonio così da transitare, nei fatti, dal regime di finanziamento a ripartizione a quello a capitalizzazione che già finanzia le Casse del 103/1996.

La volatilità delle pensioni dei professionisti non è in linea con l’art. 38 della nostra Carta Costituzionale e il CNEL fa bene ad occuparsene, prima che sia troppo tardi.

L’intervista rilasciata a Milano Finanza dal Ceo di Algebris è significativa: «Gli italiani non credono all’Italia. Investiamo nel nostro Paese meno del 2% dei nostri risparmi. È un dramma per il futuro. Fondi pensione e casse previdenziali non sanno investire.

Adesso basta. Il governo deve imporre una quota minima di investimenti nelle nostre imprese».

Davide Serra, fondatore e ceo di Algebris, pensa che per convincere gli investitori istituzionali a puntare sull’Italia ormai servano le maniere forti. Una posizione inattesa da un uomo di mercato. «È vero, sono per la libertà di mercato, ma il paradosso che viviamo è ormai insopportabile: il nostro risparmio, il quarto al mondo, viene investito ovunque tranne che nel nostro Paese. È come se fossimo un militare che, anziché utilizzare le sue munizioni per la battaglia, le offre al nemico e gli dice: sparami. Se fossimo stati più intelligenti prima non servirebbe un intervento così forte.

Dobbiamo fare come in altri Paesi europei, Francia, Germania, Svezia, dove i gestori della previdenza devono dedicare una quota percentuale minima agli investimenti nel paese, almeno il 5%». L’attacco di Serra agli investimenti degli enti previdenziali arriva anche dall’esperienza diretta.

«Da quando sono tornato in Italia sono iscritto a un fondo pensione, ma dopo cinque anni ho verificato che la performance sui miei contributi era terribile.

Allora ho scritto al fondo e ho scoperto che nessuno dei responsabili aveva esperienza nel settore. Non possiamo mettere solo avvocati nei board degli enti previdenziali, sarebbe come se io andassi a gestire uno studio legale». Del ruolo degli investitori istituzionali italiani, dalle assicurazioni al mondo della previdenza, per la crescita del Paese si parla da decenni. Ma nessuno ha mai osato imporre un obbligo a investire, perché la responsabilità dei fondi è garantire prestazioni agli iscritti. «La vera responsabilità è permettere agli italiani di investire attraverso i gestori del loro capitale paziente, quello che ha orizzonti tipicamente a venti o trent’anni, garantendo ritorni sicuramente superiori ai titoli di Stato e con un impatto diretto sulla nostra economia. Scegliete voi come, attivo o passivo, ma la allocazione deve cambiare per forza. L’indice Star di Piazza Affari ha fatto il 500% in vent’anni. Come si fa a non essere investiti? Se si continuano a comprare Etf e fondi americani, quanti posti di lavoro si creano in Italia? Gli investitori americani, attraverso i loro fondi pensione, generano ritorni medi tra il 7 e l’8%. Significa raddoppiare il capitale in dieci anni, con gli interessi composti moltiplicarli per sedici in quarant’anni. Fa la differenza tra andare in pensione benestante o povero». (Fonte: Milano Finanza del 03.06.2024)

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