LA LIBERTA' DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO. DIRITTO PURO O NO?!
Torino, 9 maggio 2024. Di Chiara Zarcone, avvocato. Già cultore della materia Diritto Penale presso l'Università degli Studi di Torino.
Il diritto di poter esprimere liberamente il proprio pensiero, garantisce ad ogni individuo la facoltà di diffonderlo per mezzo della parola, lo scritto e ogni altro strumento di comunicazione.
Le dinamiche relative alla libertà di manifestazione del pensiero si rispecchiano intrinsecamente nelle dinamiche sociali, che assumono un rilievo di primo piano in una società di massa, quale è la nostra e che si collocano in una fascia intermedia fra la massima estensione della libertà di pensiero e la sua libera manifestazione tutelata a livello giuridico.
L’art.11 della dichiarazione dei diritti dell’uomo dei e del cittadino del 26 agosto 1789 afferma come “la libera manifestazione dei pensiero e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge”.
Tutte le costituzioni moderne riconoscono il beneficio che il diritto di ciascun uomo ad esprimere liberamente il proprio pensiero apporta al bene comune ed alla possibilità di sviluppo della stessa società; seguendo questa linea di pensiero la libera manifestazione del pensiero perseguirebbe l’interesse generale alla formazione di una coscienza collettiva - oltreché individuale.
L' esistenza stessa di un sistema democratico risiede storicamente nel riconoscimento della libera manifestazione del pensiero come elemento indicatore della struttura del rapporto tra i poteri pubblici e i cittadini; la polis greca riconosceva, fra l’altro, l’isegoria come supremo bene al quale non era possibile rinunciare e la parresia - diritto-dovere di dire la verità, quantomeno la propria verità e di farlo pubblicamente, il che la rendeva un portentoso rimedio contro gli abusi del potere politico.
La libertà di manifestazione del pensiero era un diritto dell'uomo libero.
Era proprio la parresia a distinguere la polis dagli altri regimi.
Volando sulle ali del tempo si può individuare la moderna elaborazione dottrinale sulla libera manifestazione del pensiero, nello sviluppo delle teorie razionaliste intorno al XVII e XVIII secolo: pietra miliare della libera manifestazione del pensiero è il riconoscimento della freedom of speech contenuto nel Bill of Rights inglese del 1689, sebbene nel solo ambito del dibattito parlamentare.
Più tardi lo Statuto Albertino del 1848 si limitò a garantire la libertà di stampa, prevedendo che una legge ne avrebbe represso gli abusi.
Ahimè proprio la natura flessibile dello Statuto prestò il fianco a importanti censure dapprima con le leggi di polizia di fine secolo, che accordavano all’autorità di pubblica sicurezza il potere di procedere al sequestro preventivo degli stampati, poi alle censure del regime fascista.
Gli eccellentissimi Padri Costituenti, figli della storia e del loro tempo, si preoccuparono di evitare la diffusione di pubblicazioni oscene e di impedire che l’eventuale uso improprio dei mezzi di diffusione del pensiero potesse limitare altri diritti individuali, muniti di protezione costituzionale, oltreché nuocere al complessivo funzionamento del sistema politico-istituzionale (si legga discussione del 26 settembre 1946, Sottocomm. I, su legislature.camera.it).
La moderna norma di principio che ne derivò, annovera la manifestazione del pensiero fra le libertà fondamentali e ne garantisce la necessaria compatibilità con gli altri valori costituzionalmente garantiti.
Di qui l' incipit di un percorso interpretativo che ricostruisce l'essenza della libertà di manifestazione del pensiero tenendo in debita considerazione l' inevitabile coinvolgimento di altri beni, individuali o collettivi.
Da quest' humus storico-culturale prese forma il testo dell'art. 21 della nostra Costituzione che in incipit cristallizza il principio secondo il quale "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure." Nella lettura dell'articolo (che qui si richiama interamente) emerge un solo limite esplicito alla libertà da questo cristallizzata: la non contrarietà di queste al buon costume.
Tale limite risponde all’esigenza di proteggere il pudore sessuale, con particolare riferimento alla situazione in cui si trovano i minori (artt. 30 e 31). Con l'espressione "buon costume" si vuole indicare il "comune senso del pudore" e di "pubblica decenza" secondo il sentimento medio, che non è immutevole ma che subisce l'influenza della società, della storia e del tempo. Con la Sentenza della Corte Costituzionale n. 293 del 2000, viene individuata una nozione fortemente idealizzata di “buon costume”. Si fa infatti riferimento ad una "pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea" ed al "bene fondamentale della dignità umana". Tale dignità assurge al ruolo "di "supervalore costituzionale", in quanto tale sempre invocabile per limitare qualsivoglia diritto di libertà".
Non vanno ignorati i limiti impliciti alla libertà di manifestazione del pensiero. E' infatti necessario armonizzare la tutela offerta dall’art. 21 Cost. con la protezione necessaria di ulteriori beni di rango costituzionale. Volgendo lo sguardo "oltre la siepe" noteremo che nell’interpretazione della CEDU, art. 10, par. 2, sono individuati espressamente i limiti alla libertà di espressione garantita dal par. 1, cosa invece rimessa all'interprete per quanto riguarda il nostro ordinamento. La Corte Costituzionale sul tema ha statuito come le restrizioni all’esercizio della libera manifestazione del pensiero competano esclusivamente al legislatore, che ha il dovere di individuare dapprima il bene costituzionale protetto per poi procedere al bilanciamento degli interessi in conflitto (sentenze n. 9 del 1965, n. 20 del 1974, n. 18 del 1981). In via di sintesi si può affermare come l’impostazione dottrinale dettata dall' attuale giurisprudenza costituzionale in materia e quindi dal diritto vivente, individui i limiti alla libertà di manifestazione del pensiero nelle cosiddette “materie privilegiate” e nel bilanciamento con altri “ulteriori e diversi beni costituzionali”.
Nelle materie privilegiate la libertà di pensiero può giungere a prevalere anche su altri diritti costituzionalmente garantiti (l’onore, la riservatezza, l’identità personale) quando, si fa riferimento a titolo esemplificativo al diritto di cronaca, risponda al “pubblico interesse della notizia”, “che giustifica l’incisione in una sfera che, altrimenti, sarebbe riservata”. Analogamente, il diritto all’onore (primo bene costituzionale valutato dalla Consulta in ordine al pubblico interesse) è sacrificabile quando la “pertinenza”, la “verità” del fatto e la “continenza” formale e sostanziale rendano il diritto di cronaca –ma anche di critica e di satira– “privilegiato” rispetto al bene violato. Ma questa non vuole essere una lezione di diritto quanto invece un sentito dorato verso la Città di Smeraldo. Peter Häberle, insigne costituzionalista, osservò come la tutela della libertà di pensiero dovesse essere innalzata al rango di garanzia effettiva di tutti gli ambiti nei quali la conoscenza ed il confronto sono presupposti imprescindibili di altre libertà, delle quali la libertà di manifestazione del pensiero, costituisce una componente di “integrazione”. Le mutevoli esigenze che caratterizzano la natura umana, sarebbero soddisfatte da tale interpretazione estensiva della libertà di pensiero ma, proseguiva Häberle si concorrerebbe alla realizzazione di un “contropotere” all’ordine costituito, necessario a garantire il pluralismo della democrazia e l’integrità di quel dibattito differenziato che dovrebbe appartenere a qualunque corpo sociale fondato sui principi di uguaglianza e di libertà. Si badi bene che il pericolo maggiore per tutte le libertà viene dalla struttura sociale ( non dallo Stato). Jemolo a tal punto definisce “i problemi pratici della libertà” che consistono nell’esigenza di affermare giuridicamente non soltanto i diritti di coloro che convergono, quanto il contenuto del proprio pensiero e la direzione impressa alle proprie azioni, ma “anche di chi invece desidera muovere in senso opposto” e che storicamente “incontra in fatto resistenze mai sormontate” per la difesa della libertà di predicare “una dottrina errata”, di asseverare “l’errore”, di voler dare vita a strutture politiche “nefaste” (A. C. Jemolo, I problemi pratici della libertà, Milano, 1961, pp. 12-13). Ne deriva che nel dialogo tra i consociati il diritto deve garantire all’interlocutore la medesima tutela del dialogante, compreso il diritto di rifiutare il dialogo o di accoglierlo secondo criteri diversi da quelli proposti, secondo “una scala di valori” differente da quella “che la maggioranza, il cui sentire è espresso dal legislatore, impone alla minoranza dei dissenzienti." (Ibidem pp. 56-57). Non si può non fare menzione dell' immenso professor Bartolomeo Romano che nel corso di una profonda analisi sull'esistenza o meno dei "diritti puri" e sull'interferenza o meno che questi possono avere con l'esistenza dell'uomo.
In un mirabile scritto "Diritti dell’uomo" Romano afferma come i diritti puri non possano incrociare l'esistenza degli uomini, perché mai è data un’esperienza di un diritto purificabile dalla pretesa che ogni uomo avanza nella richiesta di essere riconosciuto come "...titolare di diritti incondizionati ed universali in un mondo che però non si lascia mettere ‘tra parentesi’. È il mondo storico dove si pretende il rispetto dei diritti dell’uomo, dell’io, rivolgendosi all’opera dei giurisdizioni internazionali, senza confini economici, razziali, culturali e senza asservimenti ai diversi fondamentalismi, anche al fondamentalismo formale costruito da Kelsen." (cfr B. Romano, Diritti dell’uomo cit., pp. 170 ss).
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