La deflazione è un fenomenocosì negativo?
Per gli investitori del mercato obbligazionario la distinzione tra deflazione e inflazione è un fattore rilevante.
In linea generale la deflazione favorisce i creditori poiché tende a far aumentare i rendimenti, mentre l’inflazione favorisce i debitori poiché riduce il valore reale delle passività future. Gli ultimi eventi in Giappone potrebbero segnare il passaggio da un regime all’altro. E’ noto che il Giappone sta attraversando già da diversi anni una fase di deflazione e questo ha avuto un’influenza rilevante sullo sviluppo del mercato obbligazionario in yen. Se il recente cambiamento della politica monetaria sarà permanente, allora il Paese del Sol Levante potrebbe tracciare la via di come le obbligazioni possano essere influenzate da un regime deflattivo o da uno inflattivo. L’Europa dovrebbe prendere esempio. Per come stanno andando le cose, l’Europa ha imboccato la strada della deflazione, in quanto la riduzione della leva e l’irrigidimento fiscale continuano a dominare lo scenario macroeconomico. Gli investitori che detengono obbligazioni europee si chiedono se la deflazione avrà un’influenza positiva sui rendimenti o se segnerà la fine dell’unione monetaria.
Il Giappone sta risentendo della deflazione ormai da lungo tempo. L’indice dei prezzi al consumo ha raggiunto il picco nel 1998 e da allora, secondo l’indagine mensile sulla fiducia dei consumatori, ci sono stati svariati e piuttosto lunghi periodi in cui le aspettative inflazionistiche si sono rivelate negative. Questa radicata situazione deflazionistica ha avuto effetti profondi sui mercati obbligazionari. A causa del surplus molto elevato dei risparmi nazionali e del deficit delle partite correnti, per non menzionare la struttura demografica e la propensione al rischio che ad essi si accompagnano, la deflazione ha fatto sì che gli investitori locali abbiano continuato ad acquistare titoli sovrani giapponesi a basso rendimento nominale. A sua volta, ciò ha consentito al Governo di finanziare un ampio disavanzo fiscale per diversi anni e di evitare la catastrofe prevista da molti osservatori. I rendimenti hanno raggiunto un picco del 7,8% (JGB a 10 anni) nell’ottobre 1990, circa un anno dopo il picco toccato dalle borse. A fine marzo, poco prima che Kuroda annunciasse il nuovo programma di allentamento quantitativo della Banca del Giappone, i rendimenti decennali erano scesi allo 0,5%. Inoltre, dal 1997 il rendimento è stato inferiore al 2%. Questo è il livello d’inflazione che il nuovo regime politico si è prefissato quale obiettivo ed è anche il livello al di sotto del quale i rendimenti dei mercati sviluppati core di USA ed Europa sono recentemente scesi. Nonostante i rendimenti bassi per un lungo periodo, i rendimenti complessivi derivanti dal detenere titoli sovrani giapponesi sono stati piuttosto buoni.
Negli ultimi 10 anni, il rendimento nominale annuale composito di un indice JGB è stato del 2,3%. Nello stesso periodo, l’inflazione ha raggiunto una media del -0,3% annuo, e quindi il rendimento reale è stato del 2,6%. Non stupisce che gli investitori giapponesi siano stati disponibili a soddisfare le esigenze finanziarie del governo. A differenza del trend in molti altri mercati obbligazionari, il Giappone è dominato da investitori nazionali, mentre gli investitori esteri detengono meno del 10% del mercato JGB (secondo la ricerca condotta da Normura). Nello stesso periodo, anche la duration del mercato è aumentata poiché il governo ha emesso obbligazioni a scadenza più lunga. Infatti, una base di investitori nazionali sempre più anziani, desiderosi quindi di preservare il capitale, ha consentito al governo giapponese di procrastinare le passività, dando alla classe politica più tempo per trovare una soluzione al crescente valore reale dei costi intergenerazionali.
Un altro sviluppo si è verificato sul fronte delle obbligazioni corporate. Come menzionato, la deflazione è in realtà un fattore negativo per i debitori. Mentre il governo ha la capacità di posticipare le proprie passività, la questione non è così semplice nel settore privato. Già da diverso tempo le imprese in Giappone sono impegnate nella riduzione della leva e ciò ha comportato una diminuzione non solo nelle dimensioni relative del mercato obbligazionario corporate rispetto ai titoli di Stato ma anche un declino assoluto reale del valore di mercato e del numero di obbligazioni corporate in emissione. Perché un’azienda dovrebbe ricorrere al prestito, in un contesto di calo della crescita del rendimento nominale che incrementerebbe il valore dell’assolvimento del debito futuro in termini reali? Inoltre, con la deflazione a livello macro non ci sono stati incentivi per le imprese ad investire in capacità. Pertanto, il mercato del debito corporate è calato e gli spread del credito si sono ridotti ancora di più che negli USA e in Europa.
Prima di considerare quello che potrebbe accadere ora in Giappone, vale la pena esaminare alcuni di questi trend e come essi potrebbero applicarsi in Europa. I rendimenti obbligazionari core europei sono scesi al di sotto del 2% l’anno passato e l’inflazione ha intrapreso la via del declino. La crescita è fiacca, la politica fiscale restrittiva, la politica monetaria troppo rigida, la valuta troppo forte e l’economia mostra una significativa mancanza di flessibilità strutturale. La deflazione per l’Europa è una vera minaccia. L’Europa potrebbe essere interessata da una deflazione benevola come quella nipponica? La deflazione accrescerà i rendimenti reali per gli investitori in obbligazioni anche mentre i rendimenti obbligazionari nominali sono bassi e questo potrebbe implicare che i deficit, per i quali è improbabile una rapida caduta in un contesto di crescita nominale fiacca, potrebbero essere finanziati dagli investitori nazionali. L’indebitamento corporate e finanziario continuerebbe a scendere e gli spread del credito si ridurrebbero, spingendo al rialzo i rendimenti delle obbligazioni corporate. Troppo bello per essere vero? Probabilmente si. L’Europa è diversa dal Giappone nel senso che si tratta di un mercato obbligazionario frammentato in un’unica area valutaria. I candidati che si avvicinano al modello nipponico di elevati risparmi nazionali e coesione sociale sono pochi e lontani tra di loro – forse la Germania e magari l’Italia. Per quelli che come la Spagna dipendono dalla deflazione dei finanziamenti esteri non esiste una reale possibilità di scelta. Una caratteristica della crisi dell’Area è stata il rimpatrio degli investimenti esteri all’interno dell’Europa, cosa che causato difficoltà ai debitori che non disponevano di risparmi a sufficienza per finanziare i propri disavanzi fiscali. Al picco della crisi, i più vulnerabili hanno dovuto ricorrere al salvataggio da parte dei finanziamenti esterni ufficiali. Da allora, gli altri Paesi potenzialmente vulnerabili sono rimasti in attesa, quale conseguenza della combinazione del controllo fiscale interno e della promessa o di salvataggi ufficiali esterni in futuro o di un cambiamento di regime della politica monetaria.
I mercati capiscono la necessità di premi di rischio del credito nel debito sovrano europeo. Se la deflazione si manifesta senza un calo di questi premi allora la dinamiche del debito peggiorano. La Spagna sta pagando il 3%-4% per poter ricorrere al prestito – cioè più del suo tasso d’inflazione attuale e l’inflazione probabilmente scenderà ancora con la contrazione dell’attività. Il tasso d’inflazione dell’Italia è dell’1,8% e in calo, tuttavia i rendimenti obbligazionari sono del 3%-4%. La combinazione del mancato raggiungimento degli obiettivi fiscali e le revisioni al rialzo delle proiezioni del debito non potranno che peggiorare la situazione.
La deflazione funziona solo se il paniere nazionale dei risparmi è sufficientemente ampio e adeguato da finanziare un governo e il governo si può poi permettere il lusso di avere del tempo per rimettere in ordine i conti. Ricordatevi che la deflazione non è un fattore positivo per la stabilità fiscale poiché il costo reale del debito continua a salire. Il Giappone ha infine preso coscienza del fatto che non è possibile andare avanti così per sempre. Pochi Paesi in Europa hanno il tempo di sistemare il disastro fiscale. Dunque il Giappone punta ora ad una massiccia reflazione con piani di acquisto per la Banca del Giappone pari a circa 1,6 volte rispetto all’ammontare di titoli statali giapponesi che saranno emessi nei prossimi due anni. La BoJ intende generare un’inflazione del 2%. Per gli investitori con obbligazioni a basso rendimento nominale è un disastro, poiché i rendimenti reali attesi collasseranno. Il mercato ha già risposto vendendo JGB e generando numerose illazioni riguardo al potenziale trasferimento degli investimenti giapponesi in altri mercati obbligazionari. In caso aumentino le aspettative inflazionistiche anche i rendimenti JGB saliranno; nel caso in cui l’economia reale risponderà, le imprese cominceranno nuovamente a ricorrere ai prestiti e gli spread del credito si amplieranno. L’inflazione è un vantaggio per colui che richiede il prestito non per colui che lo concede.
E’ difficile sostenere che per l’Europa non sarà opportuno seguire l’esempio nipponico. Non è la soluzione tedesca in quanto la Germania non ama le politiche che premiano il debitore né l’inflazione che penalizza il risparmiatore. Ma l’allentamento quantitativo in stile Fed/BoJ contribuirebbe ad allentare i debiti, elemento necessario ad alcune regioni dell’Area Euro e a provocare il calo dei rendimenti reali che fino ad oggi non si è manifestato. Tuttavia, non dovremmo stare con il fiato sospeso. Un approccio attendistico è ampiamente condiviso, e l’Europa continuerà a fare affidamento sui programmi di finanziamento della BCE agli Stati della UE in difficoltà, che impongano una dura condizionalità fiscale in abbinamento agli interventi. Non è chiaro se ciò rappresenta una soluzione efficace e realistica nel medio periodo. I negoziati in atto probabilmente estenderanno le scadenze dei prestiti erogati all’Irlanda e al Portogallo. Ad un certo punto la Grecia necessiterà probabilmente di un ulteriore riduzione dei debiti e il coinvolgimento del settore pubblico sembra essere la soluzione di lungo periodo privilegiata (un onere per i contribuenti dell’Area Euro nella loro totalità). Senza l’allentamento quantitativo e in assenza di condizioni deflattive favorevoli in stile giapponese, il finanziamento dei debiti sovrani deve svolgere in Europa un ruolo costante nel diminuire i rapporti debito/PIL di lungo periodo. La speranza di risolvere la situazione dipende in parte dal fatto che si continui a credere che non si coinvolga di nuovo il settore privato (PSI) nella riduzione dei debiti. A mio avviso ciò non ha senso. Se fosse vero allora gli investitori dovrebbero acquistare moltissimo debito italiano e spagnolo poiché un default anche parziale (haircut) sarebbe escluso, dato che la UE si farebbe carico del debito per poi ristrutturarlo. Non è possibile che gli investitori del settore privato non condividano l’onere di future ristrutturazioni del debito sovrano. Né il mercato ne è realmente convinto, altrimenti gli spread italiani e spagnoli sarebbero già molto più bassi.
A cura di Chris Iggo, Axa