IL LADRO DI NUVOLE. IL POETICO RACCONTO DI SIMONE SOLINAS

IL LADRO DI NUVOLE. IL POETICO RACCONTO DI SIMONE SOLINAS

Giannina Puddu, 27 agosto 2024.

Ho appena letto, per puro caso, ciò che voglio condividere con voi che leggete ifanews.it e che segue sotto, perchè mi è piaciuto.

Ho cercato l'autore del libro IL LADRO DI NUVOLE, Simone Solinas e, appena si metterà in contatto con me, arricchirò la presentazione di questo suo libro, informandovi meglio delle attività di questo artista che pare avere grande talento.

ll giovane protagonista, nato con una grande vocazione artistica dovrà crescere e lottare contro un ambiente ostile per affermare il proprio talento. Il racconto si sviluppa in un contesto rurale, tra i campi ingialliti del Sulcis, cuore del profondo sud sardo.

La figura aspra e autoritaria del padre sarà in contrasto con una figura dolce e coraggiosa che aiuterà il giovane a sviluppare le proprie capacità.

Il giovane, consoliderà la sua voglia innata di esprimersi attraverso le proprie creazioni. Questo lo porterà ad accettare una sfida con il destino.

La storia si evolve grazie a incontri fortuiti, eventi e un viaggio, in una tenace rincorsa del giovane verso la propria strada.

Mi ero appena pisciato addosso. Non in senso metaforico. Lo spavento era stato così grande e io così impreparato a gestire quel momento che non ero riuscito a bloccare tempestivamente l'impulso che premeva dal basso.
Credevo che una cosa del genere non potesse accadere per davvero. Una scena così l'avevo solo immaginata, invece, questa volta, lo sfortunato protagonista ero io e mi capitava nella vita vera. Non è più successo di spaventarmi così, che il cuore pare ti si fermi.
Anche se è passato del tempo, sento quell'istante come appena trascorso, come se, di quella giornata, la polvere alzata dal vento fosse ancora depositata sulla mia pelle. Desidero tirare fuori questo episodio dal cassetto della memoria, raccontando il mio percorso partendo proprio da qui, scrivendolo nero su bianco per pesare ogni parola.
Mi preparavo a iniziare il mio primo giorno di lavoro senza sapere ciò che sarebbe successo qualche ora più tardi.
Il contesto era quello che solo il sud può regalare. Vivevo questa esperienza tra le dolci colline sarde, con i suoi campi dipinti d'oro dal sole estivo. Alcuni vecchi ulivi apparivano solitari come sentinelle, spiando silenziosi quello che accadeva. Il rumore delle cicale era così forte che sembrava riuscisse a coprire il rombo del vecchio trattore intento a lavorare nei campi.
Il pastore, seduto dietro al volante del mezzo agricolo, aspettava me per iniziare a caricare le balle di foraggio sopra il rimorchio. Il raccolto era destinato a sfamare le numerose bestie della sua fattoria.
Il fisico dell'uomo era imponente, modellato da decenni di fatiche nelle campagne. Nonostante il caldo della giornata, era vestito con camicia e pantaloni dai tessuti robusti, capaci di attutire gli sfregamenti che questo genere di lavoro provocava sulla pelle. Capelli e barba erano folti, malamente portati, di un nero profondo, anche se qua e là spuntava qualche pelo bianco. Segno che non era più giovanissimo. I suoi occhi ricordavano il colore del mare sardo, con un verde smeraldo inusuale per questi territori. Sul suo viso olivastro era disegnata un'unica espressione accigliata.
Arrivato vicino al mezzo agricolo, mi cedette il posto di guida. Impugnai il grosso volante e osservai la strumentazione mal ridotta che mi si presentava davanti. Avevo guidato solo poche volte un mezzo simile, ma ero pronto a convincere l'uomo di saper fare bene ciò che mi veniva richiesto. Mi diede qualche raccomandazione su cosa avrei dovuto fare per assicurarsi che il lavoro si sarebbe svolto senza problemi. Nel frattempo, prese il forcone con le sue grosse mani rovinate e andò verso il rimorchio che era attaccato alla parte posteriore del trattore. Calzò i guanti in pelle, ormai cotti dal sole e mi ordinò di partire, mantenendo un'andatura lenta. Dovevo procedere sfiorando la fila di balle di foraggio così da agevolare il suo compito di caricare questi pesanti blocchi di paglia sopra il rimorchio. Finita quella fila, avrei dovuto fare inversione, tra spazi stretti, prestando attenzione a non toccare le pietre del muro di cinta che delimitava il campo, accostandomi nuovamente al fianco di un'altra fila e poi un'altra ancora finché il rimorchio non sarebbe stato caricato nella sua capienza massima.
Il campo era ricoperto da questi blocchi di paglia geometricamente perfetti. Sembravano forme scolpite da uno scultore e disposte maniacalmente, su quella vasta superficie, da un grande architetto. Il singolo blocco era tenuto da due funi di nylon bianche, che formavano un forte contrasto con il colore opaco della paglia.
Il pastore aveva una forza molto superiore alla mia. Prendeva le balle di foraggio tenendo le funi strette tra le mani. Dava una spinta vigorosa, aiutandosi anche con l'anca per caricarle sopra il rimorchio. Quando l'altezza del carico avrebbe raggiunto un livello troppo alto per fare il lavoro a mani nude, si sarebbe aiutato sfruttando la leva del forcone. Ogni volta che uno di questi blocchi veniva sollevato dal terreno, una nuvola di polvere si levava nell'aria, ricoprendo la figura dell'uomo.
Eravamo solo io e lui, come due puntini disegnati in un foglio bianco, in qualche luogo nei terreni del Sulcis, provincia povera della Sardegna, circondati da centinaia di balle di fieno.
Pensavo che la stagione della pioggia dovesse essere stata davvero generosa e quei campi così fertili per aver prodotto un raccolto così rigoglioso. Oppure era la normalità. Questo non potevo saperlo. La mia inesperienza era grande e colmavo le lacune con pensieri incerti. Sentivo tanta tensione addosso, anche se cercavo di dissimulare. Comprensibile per uno come me che fino al giorno prima era stato impegnato a perdere il proprio tempo davanti alla tv, seguendo qualche serie americana, oppure con i cugini, dietro ad un pallone. Invece, in questo momento, mi trovavo a portare un mezzo mai manovrato prima con un imponente carico alle spalle.
I minuti passavano e tutto stava andando bene.
Il trattore procedeva molto lentamente per consentire al pastore di compiere la sua mansione correttamente. Le marce ingranate, che in gergo tecnico si chiamano ridotte, facevano muovere le ruote al rallentatore. Le impronte lasciate dai grossi pneumatici apparivano come cicatrici impresse sopra il terreno arido.
Il rimorchio non aveva sponde laterali ma le balle di foraggio riuscivano a reggersi tra di loro grazie alla maestria del pastore, che le posizionava seguendo un ordine preciso. Un po' come fa il muratore quando tira su un muro, mettendo i blocchi di cemento in file sfalsate per distribuire il carico verticale.
Le mie azioni erano scandite dalla sua voce. Comandava i miei gesti urlando "fermati" e "vai". Non era semplice comprenderle chiaramente, poiché il frastuono provocato dal motore di grossa cilindrata, giocava a nascondere le sue parole.
Nei momenti in cui eravamo fermi, mi mettevo ad osservare il vecchio trattore. Il suo colore era di un inusuale arancio intenso. Due bande bianche poste ai lati con il logo Fiat dal colore grigio antracite, spezzavano la sua monotonia cromatica. Ma era più la ruggine presente a macchia di leopardo che destava la mia attenzione. Chissà quante giornate sotto la pioggia battente o sotto il sole cocente aveva vissuto. Trasudava olio da ogni bullone. I suoi segni di mille battaglie stimolavano la mia fantasia. Lo paragonavo ad un vecchio guerriero che portava a termine il suo valoroso compito nel campo di battaglia.
Il percorso che seguivo con il trattore stava progressivamente cambiando, abbandonavo il terreno pianeggiante per iniziare a lambire la collina. Sentivo la pendenza che si faceva sempre più evidente. Anche la trazione delle ruote era cambiata, passata da un movimento costante e docile a uno più scorbutico, fatto per lo più di strappi. Le vibrazioni del mezzo, già forti, aumentavano e si ripercuotevano su tutto il mio corpo. La tensione aumentava. Capivo che il compito si stava facendo molto più gravoso.
Il pedale della frizione era davvero duro, e gestire il punto d'attacco della marcia non era affatto semplice, soprattutto a causa della pendenza, che mi obbligava a utilizzare anche il pedale del freno per spuntare. In uno di questi movimenti con entrambi i piedi qualcosa andò storto. Il mio sincronismo non fu preciso. A causa della mia inesperienza e dell'asperità del terreno, il trattore diede un forte impulso in avanti per poi spegnersi di colpo, rimanendo silenzioso. Ebbi la sensazione che anche le cicale fossero state distratte da questo improvviso arresto, interrompendo il loro canto. Sentivo nitidamente solo il rumore del vento che si divertiva a correre tra i campi. La quiete di quel momento fu squarciata dalle imprecazioni del pastore. Questo brusco movimento del trattore aveva fatto prima oscillare e poi cadere una parte del carico delle balle di foraggio presente alle mie spalle. L'uomo, vedendo quello che era successo, lanciò vigorosamente il forcone contro un blocco di paglia, trafiggendolo con le sue punte acuminate, come fosse un odiato nemico da uccidere, bramante di avere la tua terra. Corse verso di me urlando parole arcane che non ricordo. Salì velocemente sul trattore. Aveva la fronte grondante di sudore e le vene ingrossate dall'ira. Arrivato a pochi centimetri da me, continuava ad urlare, allungando all'indietro il braccio destro, mostrandomi il palmo della mano come a voler sferrare uno schiaffo. Mi coprivo il viso con le mani e gli avambracci, lasciando liberi solo gli occhi, per vedere quando sarebbe stato sferrato il colpo. Avevo i muscoli irrigiditi, una forte tensione attraversò tutto il mio corpo in un istante, come una scossa elettrica.
È in questo preciso momento che sentii le mutandine bagnarsi dalla paura.
Quell'uomo era mio padre e io avevo cinque anni.
Resosi conto di aver esagerato placò la sua rabbia e discese i gradini del trattore. Si asciugò la fronte con la manica della camicia e dopo aver bevuto un sorso d'acqua da una borraccia, riprese instancabile a sistemare il carico caduto a terra.
Non mi disse più niente per tutto il giorno.
La sua non era una collera provocata dalla rovinosa caduta di ciò che stavamo trasportando. O meglio, non solo. Era una furia alimentata da anni di frustrazioni causate da conti che non tornavano, da bollette non pagate, da chiamate dei fornitori che chiedevano di rientrare dai propri debiti.
Finimmo il lavoro a tarda sera. La polvere sul mio viso era solcata dai segni delle mie lacrime.
Un mucchio di frasi che iniziavano con il "se" affollavano la mia mente.
Se quel trattore fosse stato meno malconcio.
Se il terreno fosse stato tutto pianeggiante.
Se fossi stato un po' più grande.
Se fossi nato in un'altra famiglia.
Tornato a casa, incontrai mia madre, in cucina, di spalle, intenta a preparare il sugo per la cena. Il profumo che veniva dalla pentola mi diede un po' di sollievo. Si voltò e le andai incontro come fa una barca nel mare agitato che cerca il suo porto sicuro. Le raccontai tutto, lei mi guardava con i suoi occhi grandi, con un'espressione dispiaciuta, si tolse il grembiule macchiato di alcuni schizzi di sugo e mi accolse tra le sue braccia sussurrandomi in sardo “Coro meu stimau” cuore mio stimato.
Da quel giorno promisi a me stesso che non sarei mai più cresciuto. Nel corso del tempo sarei cambiato nell'aspetto, diventato grande fisicamente, invecchiato, ma dentro sarei rimasto sempre bambino. Così avrei potuto recuperare un'infanzia che mi era stata negata.
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Il ladro di nuvole - 1°capitolo
Continua la lettura del mio libro:

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