IL DIRITTO DI VIVERE E IL DIRITTO DI MORIRE
Torino, 12 novembre 2023. Di Chiara Zarcone, avvocato e cultore della materia in Diritto Penale presso l'Università degli Studi di Torino.
"Quis alius noster est finis nisi pervenire ad regnum, cuius nullus est finis". Quale altro sarà il nostro fine, che giungere al regno che non avrà fine? (S. Agostino De Civ. Dei 22, 30.5)
Si premette che questo lavoro vuole discostarsi da qualsiasi influenza religiosa in quanto puramente ispirato al Diritto che, come sovente accade, segue strade differenti rispetto alla religione o alla morale.
La morte è parte della vita. Il profondo rispetto che si deve alla vita impone il complementare rispetto per la morte.
Küng ed Jens in uno scritto del lontano 1995 che forse tutti dovrebbero leggere - Della dignità del morire. Una difesa della libera scelta, edito da Rizzoli - affermavano come il diritto di una persona ammalata di continuare a vivere non potesse divenire un dovere sottolineando come il diritto alla vita non potesse essere considerato equivalente a una sorta di coercizione a continuare a vivere (non può esistere un dovere di vivere).
Non è stato facile per i popoli conquistare il diritto alla vita - che peraltro oggi, nel mondo occidentale, è considerato scontato -. Dimostrazione di ciò risiede nella circostanza secondo la quale soltanto nel dopoguerra, con la nascita delle moderne costituzioni, insieme alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si è assistito alla ufficiale cristallizzazione del principio secondo il quale dignità e persona devono essere considerate entità inscindibili, che a queste deve essere garantito rispetto ed elaborando al contempo un complesso sistema di tutele.
Esiste un nesso necessario tra libertà, dignità e libera autodeterminazione cui corrisponde il dovere pubblico di sopprimere gli ostacoli alla libertà decisionale della persona. L' individuo viene consacrato quale libero costruttore della propria personalità.
Proprio il principio all' autodeterminazione, riconosciuto peraltro preminente dall’ordinamento giuridico italiano, è il cardine della questione: se è vero, come è vero, che ogni individuo ha il diritto di autodeterminarsi per quanto riguarda la sua esistenza e quindi la sua vita, può dirsi altrettanto per il quanto riguarda il diritto di porre consapevolmente fine alla sua vita?
L’articolo 32 della Costituzione cristallizza il diritto fondamentale alla salute, qualificandolo non soltanto come diritto individuale, ma anche come interesse della collettività, statuisce come "la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana".
Tale assunto implica il libero governo da parte dell’individuo della propria esistenza in ogni momento della propria vita e quindi anche alla fine della vita?! In un contesto dominato dall’assenza di un' idea comune in ordine al riconoscimento di un diritto a morire la Corte Edu ha cercato di risolvere le complesse questioni concernenti il fine vita nell' ottica orientata a garantire la più ampia tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Volgiamo allora il nostro sguardo al di là della siepe: la Corte di Strasburgo ha costantemente richiamato la sacralità del diritto alla vita, rivendica per converso l' autodeterminazione dell’individuo come diritto fondamentale. L’individuo quale unico titolare dell'imprescindibile ed inderogabile diritto all' autodeterminazione, può scegliere le modalità ed il tempo della propria morte ove ciò si renda necessario al fine di preservare la propria dignità davanti alla sofferenza.
La Corte fa riferimento esplicito alla dignità umana quale chiave di volta sulla quale è incentata la Convenzione del 1950 e, sebbene i giudici sovranazionali non consacrino espressamente il diritto a morire dignitosamente, essi interpretano estensivamente la nozione di vita privata, tanto estensivamente da ricomprendervi il diritto all’autodeterminazione da cui deriva il logico riconoscimento della libera scelta della persona sul quando e come morire.
Nella pronuncia Pretty c. Regno Unito per la prima volta la Corte afferma l’esistenza del diritto di ciascuno ad autodeterminarsi, considerando che l’autonomia personale riflette l’interpretazione estensiva delle garanzie dell’art. 8 della Convenzione. I giudici della Corte riconoscono carattere primario all’articolo 2 Cedu, privilegiando la sacralità del diritto alla vita. Riconoscendo l'eternata l’antinomia esistente tra autodeterminazione della persona e inviolabilità della vita umana. Tra i due diritti i giudici della Corte hanno "preferito" una esaltazione del diritto alla vita evidenziando come questo non potesse essere letto anche come il diritto a non vivere.
La Corte si è rifiutata prudenzialmente di consacrare il diritto di morire e piuttosto ha fortissimamente ribadito il diritto all’autodeterminazione declinato come diritto a scegliere la morte piuttosto che la vita. Sarebbe più corretto parlare di un diritto a decidere come e quando morire - dark side del diritto alla vita enunciato dall'art. 8 - . Soltanto con la sentenza, Haas c. Svizzera, 20 gennaio 2011, n. 31322/07 la Corte Edu ha legittimato ufficialmente la volontà di porre fine alla propria vita di colui che lo richieda in modo sicuro, degno, senza dolore e sofferenze superflue, prevedendo in capo agli Stati l’obbligo positivo di adottare tutte le misure necessarie fine di consentire il "suicidio" in maniera dignitosa.
Pietra miliare della questione fu il caso Lambert nell'ambito del quale la Grande Chambre in materia di arresto di trattamenti sanitari vitali quali quelli dell’alimentazione e della idratazione forzata, ha evidenziato il ruolo primario e necessario del consenso del paziente nel decidere della propria vita. Viene dunque dato rilievo massimo alla volontà del paziente e quindi ancora una volta alla volontà dell'individuo, fulcro del suo mondo e del suo destino. Nella medesima decisione la Corte aveva osservato come malgrado i trattamenti non fossero la causa diretta di un dolore fisico del paziente, dovesse parimenti essere considerata la sofferenza psicologica del paziente, poiché i trattamenti sanitari possono indirettamente dar vita ad una sofferenza morale dell’individuo, il quale potrebbe non accettare un'esistenza di totale dipendenza da macchinari che lo sostituiscono nelle proprie funzioni, privandolo di ogni controllo su sé stesso e dunque privandolo della propria dignità.
A tutto questo si è ispirata la legislazione italiana che, seppur pigramente, ha recepito le coordinate d'oltralpe con la legge 219/2017, "Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento" volta proprio non al porre fine alla vita ma ad evitare il prolungarsi di una vita-non vita, caratterizzata da una sofferenza fatale.
Attraverso le disposizioni di fine vita l'individuo non decide tanto della propria salute, quanto della propria vita e della propria qualità di vita. Nell' ambito del cosiddetto caso Cappato - imputato del reato previsto e punito dall’art. 580 c.p. per aver rafforzato il proposito suicidiario di Antoniani Fabiano - , i pubblici ministeri avevano presentato una memoria con la richiesta che venisse sollevata una questione di legittimità costituzionale in relazione all' art. 580 c.p. nella parte in cui incrimina la condotta di “partecipazione fisica” o “materiale” al suicidio altrui senza escludere la rilevanza penale della condotta di chi aiuta il malato terminale o irreversibile a porre fine alla propria vita, quando il malato stesso ritenga le sue condizioni di vita fonte di una lesione del suo diritto alla dignità. Anche la difesa di Marco Cappato chiedeva la medesima valutazione. All’esito dell’udienza, la Corte Costituzionale, rilevato che "l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti", al fine di "consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina" decideva di rinviare la trattazione della questione.
All’udienza del 25 settembre 2019, la Corte Costituzionale riteneva la questione fondata. La Corte Costituzionale dichiarava dunque l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. "nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente".
Non opus est entrare nel merito tecnico di come si scrive materialmente una DAT - o forse si può dedicarvi un lavoro futuro - , sarebbe piuttosto opportuno porsi degli interrogativi, chiedersi se i principi della CEDU e delle sentenze dei giudici europei siano stati effettivamente recepiti dal nostro ordinamento e sopratutto dalle coscienze comuni. L'onda delle idee che muta l'orientamento delle coscienze comuni è la medesima onda che porta all' evoluzione ed al progresso. L'autodeterminazione della propria personalità sotto l'egida garantista della tutela della Legge rappresenta la massima espressione di libertà.