Il consulente che chiedeva solo un po’ di fiducia

E’ assurdo. Ci sono 36 gradi all’ombra, l’asfalto milanese ti cuoce il volto e tu, povero mio professionista, sei costretto a indossare camicia, giacca e cravatta. Ieri ti ho visto, fuori dal portone della palazzina dove risiede il mio ufficio. Avevi un paio di documenti in mano, aspettavi ansiosamente il cliente di turno e ti annusavi l’ascella.

Il consulente che chiedeva solo un po’ di fiducia

Viene da chiedersi il perché. Per quanto piuttosto patetica a un primo sguardo, questa immagine mi ha regalato una sintesi perfetta di quello che è il nostro modo di vedere il mondo, il nostro modo di valutare la fiducia. La fiducia, per chi sa di non doverla meritare, è una questione di immagine. Per quello devi indossare quella maledetta giacca anche con l’afa che ti squaglia e guai a te se qualcuno ti beccasse mentre controlli se puzzi o meno. Però fatico a capirne il senso. Anche se fosse che la fiducia sia una questione di immagine, non dà più fiducia una persona a proprio agio, magari in semplice camicia, piuttosto che un buffo cravattone macchiato di sudore?

Poi ci penso e mi viene in mente che l’oppressione è alla base del controllo, perché evita all’individuo di prendere piena confidenza con il mondo che lo circonda e quindi con gli strumenti adatti a rendere la propria vita migliore, non sempre coerenti con status quo di chi è al comando. E il controllo è l’oppio di chi non conosce la fiducia. E poi noi italiani godiamo così tanto nel farci opprimere, perché per chi abita il nostro paese non vi è nulla di più triste del non avere nulla di cui esser tristi. Ci distrae dall’essere un paese da sempre in balia altrui, verrebbe da dire per colpa di un karma indissolubile figlio delle nostre vanità passate ai tempi dell’Impero.

Nessuno è esente da colpe, nessun può fuggire dal martirio se non attraverso un altro sacrificio ancora più logorante. Perché ormai staccarsi dalla società significa morire nella solitudine. Pochi ne hanno la forza e forse, alla fine, non avrebbe nemmeno senso, da che nessuno ci hai mai mandato Polaroid di volti sorridenti dall’Aldilà.

E così non resta che una cosa, forse l’unica risorsa che ci concede di non pensare agli interrogativi che quotidianamente ci pone questa strampalata esistenza: ridere. Ridere di quello che siamo, di quello che ci crediamo di essere. Ridere di chi pensa di avere certezze. Ridere delle cravatte, dei bilanci, delle cazzate che ogni giorno dobbiamo ingoiare. Ridere di fronte al rettore che ti consegna una laurea in Bocconi in `Economia degli Intermediari e dei mercati finanziari` mentre tu sei in pantaloncini perché fuori fa caldo e sei l’unico in tutta l’aula magna. E magari poi fare una fotografia ricordo davanti a un cestino, ben cosciente che se tutto è immagine allora non resta che giocarci con quell’immagine. Riguardarla dopo anni. E riderci su.

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