GLI EFFETTI PERVERSI DELLA GIUSTIZIA MEDIATICA. Ombre di un fenomeno moderno.
Torino, 8 gennaio 2025. Di Chiara Zarcone, Avvocato del foro di Torino, giurista, già Cultore della materia Diritto Penale presso l’ Università degli studi di Torino.
In incipit di questo lavoro mi sono venute alle mente le parole di un immenso Maestro del Diritto italiano, Francesco Carnelutti, che già negli anni '50 ne “Le miserie del processo penale” ragionando sul meccanismo perverso del processo penale mediatico, osservava come “...il processo medesimo è una tortura.
Fino ad un certo punto […] non si può farne a meno; ma la cosiddetta civiltà moderna ha esasperato in modo inverosimile e insopportabile questa triste conseguenza del processo.
L’uomo, quando è sospettato di un delitto, è dato ad bestias, come si diceva una volta dei condannati dati in pasto alle fiere […].
L’articolo della Costituzione, che si illude di garantire l’incolumità dell’imputato, è praticamente inconciliabile con quell’altro, che sancisce la libertà di stampa.
Appena sorto il sospetto, l’imputato, la sua famiglia, la sua casa, il suo lavoro sono inquisiti, perquisiti, denudati alla presenza di tutto il mondo.” (Roma, 1957).
I procedimenti penali - dalla fase delle indagini alla fase decisoria – sono diventati nel corso degli anni via via sempre più dei veri e propri show.
Ciò anche perchè per la natura stessa di alcune fattispecie di reato, viene sempre più stimolata la morbosità dello spettatore medio che si ritrova per ciò irresistibilmente attratto dalla trasmissione di turno.
Questa distorsione del sistema ha generato il fenomeno della “giustizia mediatica” la cui sedie è quella del salotto televisivo – con le fattezze di una nuova aula di giustizia - .
E' bene soffermarsi sugli effetti negativi che tale fenomeno ha generato sia sull' iter stesso del processo sia sulla vita delle persone che ne sono protagoniste.
Ma il nucleo principale della questione risiede nella opportunità di bilanciare nel modo più efficace possibile esigenze che per loro natura sono contrapposte.
Da un lato giocano le tutele connesse all’informazione giudiziaria sia a livello nazionale così come cristallizzate dall’art. 21 Cost. ed a livello sovranazionale dall’art. 10 C.E.D.U. (A partire dalla Racc. n. 13 del 2003 adottata il 10 luglio 2003 da Consiglio d’Europa, contenente Principi relativi alle informazioni fornite attraverso i mezzi di comunicazione in rapporto ai procedimenti penali; nonché dalla Risoluzione n. 1165/1998 adottata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, al cui punto 12 – significativamente – si legge che il diritto alla riservatezza riconosciuto dall’art. 8 C.E.D.U. tutela l’individuo nei confronti di interferenze recate non solo da pubbliche autorità, ma anche da persone e istituzioni private, inclusi i mass media) - non in ultimo anche dall’art. 11 Carta dir. fond. UE, ossia la libertà di espressione quale pietra angolare della democrazia – dall’altro lato sono schierati i diritti individuali all’onore e alla reputazione, alla riservatezza, alla vita privata, ma anche all’equo processo e, fondamentalissimo, il riconoscimento della presunzione di innocenza.
Della complessiva fragilità dell’assetto normativo ha preso atto, con cruda franchezza, la stessa Corte costituzionale, rilevando come “non esista una adeguata tenuta della segretezza degli atti custoditi negli uffici giudiziari, come purtroppo dimostrano le frequenti fughe di notizie e di documenti” (Sentenza n. 173 del 2009).
Occorre a questo punto operare un distinguo tra il processo mediatico che si risolve nella celebrazione del processo sui mezzi di informazione attraverso lo “scimmiottamento” della dinamica processuale e per converso, la c.d. pubblicità mediata che, invece, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, costituisce una rappresentazione della vicenda processuale in conformità all’esercizio legittimo e socialmente utile di un diritto costituzionalmente garantito, che è il diritto di cronaca.
Legittimo e necessario quest' ultimo, distorto e patologico il primo la cui fenomenologia nell' accertamento sommario, talvolta meramente concentrato sulle primissime attività investigative, celebrato in televisione o su piattaforme digitali, alla presenza degli esperti di turno o sedicenti tali, nonché talvolta delle parti stesse del processo medesimo che sovente e naturalmente (non se ne vuol fare una colpa) forniscono la propria versione.
È proprio in questo ambito che si assiste ad un mutamento della funzione della comunicazione, che da in-formativa diviene formativa.
Il messaggo comunicativo non è più quello di informare il pubblico di ciò che accade nel processo penale e delle logiche che lo governano, bensì quello di prendere una posizione sul merito del processo stesso ed indurre parimenti ad un’analoga presa di posizione l’opinione pubblica influenzandone il giudizio – generando il distorto fenomeno del populismo penale - .
In fin dei conti non si può negare che il processo mediatico sia un' alterativa più rapida e più comprensibile rispetto ad un processo ordinario (sic!) ma i suoi effetti distorsivi si riverberano gravemente sia in sede processuale - si vedano i possibili pregiudizi per l’imparzialità del giudice e della sua “purezza cognitiva” rispetto alle fonti di conoscenza extraprocessuali.
Per completezza si vuole evidenziare come la giurisprudenza sembra incline a schermare tali effetti dietro alla ingenua figura di un giudice insensibile alla pressione dei media, ma la dottrina più autorevole ed attenta al tema non rinuncia a ribadire “quanto preoccupanti siano i danni da inquinamento mediatico sui procedimenti in corso e quanto i normali strumenti processuali siano impotenti a porvi rimedio, quando non risultino addirittura controproducenti” - ma anche riguardo all’attendibilità dei testimoni.
E' notorio come la psicologia della memoria abbia appurato come tutto ciò che accade tra un fatto percepito ed il momento della sua rievocazione influenza il ricordo e impone dunque una nuova fisionomia alla conoscenza originaria: in altre parole si tende a non ricordare più il fatto, ma il racconto di quel fatto ( GIOSTRA, voce Processo penale mediatico, cit., 651).
Ma non solo.
Una ricerca condotta dall’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali Italiane ha dimostrato come nel processo penale mediatico, il giudizio sia tendenzialmente colpevolista perché la convinzione che il responsabile di un determinato crimine sia stato individuato è in grado di assicurare un’audience più alta (L’informazione giudiziaria in Italia.
Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, Pisa, 2016).
Sinteticamente, si può dire che l’aspetto patologico dell’informazione giudiziaria risiede nell’indebita divulgazione che frequentemente viene fatta di materiale d’indagine coperto da segreto, in spregio alle norme processuali – tra le quali si vedano in particolare quelle che assicurano la segretezza degli atti d' indagine - ed in assenza di effettive e dissuasive sanzioni.
Sul piano legislativo, sarebbe auspicabile un ripensamento dell’attuale disciplina, soprattutto in una prospettiva di più chiara separazione tra ciò che deve rimanere segreto e ciò che può essere divulgato (si veda fra tutti GIOSTRA “Riflessi della rappresentazione mediatica sulla giustizia “reale” e sulla giustizia “percepita””, in Leg. pen., 17 settembre 2018, 10-11).
Non può non essere condivisa l’idea di rimarcare l’area coperta dal segreto.
Oltre agli atti di indagine della polizia giudiziaria e del pubblico ministero e gli atti di richiesta e autorizzazione con finalità investigative (art. 329 c.p.p., così come revisionato dal d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216), sarebbe opportuna una previsione di segreto anche per la richiesta di misura cautelare e l’ordinanza cautelare prima della sua esecuzione o notificazione.
Necessiterebbe inoltre una normazione sul regime che devono seguire gli atti che o per il loro collegamento con le indagini (iscrizione della notizia di reato, informativa di polizia giudiziaria) o per la loro carica in qualche misura “stigmatizzante” (informazione di garanzia) potrebbe essere opportuno includere nell’area degli atti riservati.
D’altra parte, sarebbe auspicabile la rimozione dei limiti imposti al diritto di cronaca per gli atti non più segreti abbandonando la distinzione – operata dall’art. 114 c.p.p. – tra atto non pubblicabile e contenuto pubblicabile.
Del resto, una norma che ritiene lecita la pubblicazione di un atto se si omette di usare i caporali e sostituisce alcune parole con i rispettivi sinonimi, mentre la considera illecita se riporta un virgolettato, non coglie nel segno della tutela che vorrebbe apprestare, anzi, si presta ad ambiguità (si veda fra tutti ORLANDI, La giustizia penale nel gioco di specchi dell’informazione, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., 2017, 3, 56).
E' dunque possibile pensare ad una soluzione del problema?
Affidarsi alla deontologia ed alla sensibilità individuale del giornalista non pare un rimedio sufficiente a contrastare un fenomeno tanto vasto e pregiudizievole.
É pur vero che i giornalisti rispondono, o dovrebbero rispondere, a regole di deontologia professionale e va in una direzione condivisibile il Testo unico dei doveri del giornalista, approvato dal Consiglio nazionale nella riunione del 27 gennaio 2016, al cui art. 8, punto 1, ribadisce il rispetto della presunzione di innocenza, a cui si aggiunge il dovere di dare notizia, “con appropriato rilievo”, delle assoluzioni e dei proscioglimenti.
Esiste tuttavia un problema di carattere soggettivo: non tutti quelli che operano nel settore dell’informazione giudiziaria sono giornalisti.
È difficile pertanto sostenere un’applicazione in via analogica delle regole deontologiche che informano la professione giornalistica a chiunque svolga, di fatto e senza iscrizione all’albo, funzioni equivalenti.
Sarebbe quasi impossibile da realizzare un divieto a soggetti non professionisti di svolgere attività giornalistica in relazione ai processi penali (RIVIEZZO, L’ingiusto processo mediatico, MediaLaws – Rivista dir. media, 2018, 3, 73, consultabile all’indirizzo internet www.medialaws.eu).
Non si può ignorare come in questo ambito operino le norme ordinarie in tema di diffamazione, oggetto di tentativi di riforma che sino ad ora hanno portato ad un nulla di fatto e di interventi della Corte costituzionale diretti a circoscrivere a casi limite l’applicazione di sanzioni restrittive della libertà; vi è poi la risibile sanzione contravvenzionale in caso di violazione dei divieti di pubblicazione prescritti dal codice (art. 684 c.p.), nonché il delitto di illecito trattamento di dati, di cui all’art. 167 T.U. Privacy (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196).
Un’ulteriore soluzione potrebbe risiedere nell’introduzione di una nuova fattispecie incriminatrice che sanzioni il comportamento del giornalista lesivo della presunzione d’innocenza.
Tuttavia, a prescindere dalle probabili difficoltà di formulazione in rapporto al principio di determinatezza e tassatività, una simile soluzione si rivelerebbe probabilmente meramente simbolica, demagogica e non concretamente capace di arginare il fenomeno del processo mediatico.
Le misure del diritto penale, come testimonia la quotidianità, non sono la soluzione più efficace.
Si potrebbe pensare semmai di affidare alla normazione secondaria e all’azione delle Autorità amministrative indipendenti – Autorità garante per le comunicazioni e Garante per la protezione dei dati personali – la titolarità di un procedimento amministrativo sanzionatorio che funga da argine al declino della presunzione di innocenza, attraverso l’irrogazione di misure interdittive, pecuniarie e concretamente ripristinatorie (come potrebbe essere un più cogente ordine di rettifica e di rimozione dei contenuti pregiudizievoli).
Non pare azzardato comunque pronosticare che nessuna delle previsioni immaginate dalla dottrina (fra tutti Caneschi).
Chiaro e limpido che il processo mediatico è la vera patologia dell’informazione giudiziaria è necessario che si dia priorità assoluta e protezione massima ai diritti fondamentali di chi, futuro colpevole o innocente, soggiace alla potestà punitiva statale, avendo cura, come insegna il Prof. Vittorio Manes, di non abbandonarlo alla premura deontologica, al maggior o minor rigore, alla volubile sobrietà o sensibilità del singolo magistrato o giornalista.