Germania: dopo il voto serve un cambio di rotta nella politica economica
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Milano, 24 febbraio 2025. A cura di Bert Flossbach, co-fondatore di Flossbach von Storch.
La Germania ha votato.
Per quanto fosse alta la tensione riguardo alle esigue maggioranze, il risultato finale è stato tutt’altro che sorprendente.
Partiamo dalle buone notizie: i partiti democratici hanno (ancora) la maggioranza in Germania.
L’estrema destra e l’estrema sinistra non faranno parte del prossimo governo.
Dopo le elezioni inizia la politica.
Resta da vedere se una (già nota) “grande coalizione” tra CDU (Unione Cristiano-Democratica) e SPD (Partito Socialdemocratico), che ha già governato dal 2013 al 2021, riuscirà a rilanciare la più grande economia europea.
I dubbi, di certo, non mancano.
Non da ultimo perché la responsabilità individuale e l’imprenditorialità non sono particolarmente apprezzate in Germania, così come in altre regioni d’Europa.
In Germania si usa il termine Vollkaskomentalität, ovvero “mentalità del tutto garantito”, che si potrebbe rendere con un’ironica metafora, del tipo “Pacchetto completo – e pure gratis”.
Sono in molti, infatti, a considerare lo Stato un salvatore onnipresente e il datore di lavoro ideale.
Al contempo, l’Europa è appesantita da una burocrazia dilagante, con un’intricata rete di regolamenti comunitari, spesso aggravata da ulteriori norme nazionali che complicano ancora di più la situazione per le aziende.
Come se non bastasse, la Germania tende anche a recepire le direttive europee prima degli altri Stati (come nel caso della legge sulla due diligence nelle catene di fornitura, in breve LkSG) o a renderle ancora più restrittive (si pensi alla legge sull’efficienza energetica degli edifici, la GEG).
Si stima che i costi burocratici in Germania ammontino fino a 65 miliardi di euro all’anno.
Questo significa meno tempo per il core business, meno innovazione e meno sostenibilità concreta – mentre sulla carta sembra il contrario.
Non sorprende che, secondo un sondaggio di Ernst & Young, imprenditori e manager vedano la burocrazia come il principale ostacolo agli investimenti in Germania.
A questo si aggiunge un altro problema: una politica industriale di stampo dirigista che rallenta il cambiamento economico.
Prendiamo l’esempio di Volkswagen.
Il governo, invece di lasciare che il colosso automobilistico si adatti alle nuove realtà di mercato, continua a intervenire per proteggere il vecchio sistema.
Di conseguenza, le competenze e i talenti restano bloccati in vecchie strutture, mentre sarebbero fondamentali in settori emergenti.
Con un’economia sempre più statica e una tecnologia in rapida evoluzione, la Germania rischia di restare indietro rispetto agli Stati Uniti.
Niente più “miracolo economico”
La Germania sta perdendo attrattività come destinazione degli investimenti.
A scoraggiare gli investitori sono un’infrastruttura in declino, una digitalizzazione arretrata, una politica energetica inefficace e una burocrazia soffocante, quasi kafkiana.
Molte imprese tedesche preferiscono investire all’estero, dove le condizioni sono migliori.
Le conseguenze sono evidenti: gli investimenti aziendali sono oggi circa il 10% sotto il livello del 2019 con il risultato che il tessuto economico si sta restringendo e non viene rinnovato.
L’unico settore in crescita è il pubblico impiego.
Questa dinamica ha conseguenze che vanno ben oltre la sola Germania.
L’intera economia dell’Eurozona ne risente.
Dallo scoppio della pandemia, la crescita economica europea è rimasta praticamente ferma: il prodotto interno lordo reale (ovvero al netto dell’inflazione) è aumentato solo del 4% rispetto all’inizio del 2020, pari a un magro +0,8% annuo.
Nello stesso periodo, gli Stati Uniti sono cresciuti in termini reali di quasi il 13% o 2,4% annuo, cioè tre volte tanto.
La crescita anemica dell’Eurozona è dovuta in gran parte alla debolezza economica della Germania - il più grande mercato regionale - che negli ultimi due anni ha addirittura registrato un lieve declino.
Interi settori stanno entrando in crisi, riducendo i posti di lavoro, mentre possibili dazi dagli Stati Uniti potrebbero peggiorare la situazione.
Nelle sue ultime stime, il Fondo Monetario Internazionale ha previsto per l’Eurozona una crescita di appena l’1,0% nel 2025, con la Germania che potrebbe risultare ancora una volta il fanalino di coda.
Forse la crisi farà aprire gli occhi a molti: senza un’economia sana è il presupposto fondamentale per un welfare sostenibile, per la sicurezza nazionale e per la transizione ecologica - e soprattutto, che le risorse necessarie per tutto questo devono essere create ogni anno, non semplicemente redistribuite.
Dai quasi 500 miliardi di euro del bilancio federale tedesco, ben 176 miliardi vanno alla spesa sociale.
Di questi, 116 miliardi sono destinati a coprire i buchi del sistema pensionistico, che non si regge più solo sui contributi di lavoratori e aziende (circa 300 miliardi).
Con 21 milioni di pensionati e una generazione di baby boomer che sta per ritirarsi dal lavoro, nessun politico ha il coraggio di affrontare una vera riforma.
Ma nel frattempo ci sono altre spese urgenti da finanziare: almeno 40 miliardi all’anno per la difesa (1% del PIL) ed enormi investimenti per la transizione energetica e per l’innovazione tecnologica.
La Germania, per ora, ha un livello di debito pubblico ancora relativamente basso.
Potrebbe essere sensato allentare la tanto discussa “regola del freno al debito”, ma solo se il denaro venisse investito in progetti che garantiscano crescita futura, e non per gonfiare ancora di più la spesa pubblica.
Le sfide sono enormi e richiedono riforme coraggiose.
Non si tratta solo del futuro della Germania, ma di tutta l’Europa.
Alla base di tutto devono esserci democrazia, libertà e l’impegno quotidiano dei cittadini.