CLAUDIO SCARDOVI. CINQUE TRILIONI DI RICCHEZZA ITALIANA NEL MOMENTO DELLA TEMPESTA PERFETTA.
Redazione, 22 settembre 2022.
Vi invitiamo a leggere la dichiarazione diClaudio Scardovi, fondatore e CEO HOPE SICAF SB SpA:
Il risparmio gestito non è mai stato così ricco: 112 Trilioni nel 2021 a livello globale (stime BCG).
E con una forte crescita degli investimenti alternativi (private equity corporate e real estate, principalmente), fino a circa il 20% (e con un contributo del 40% ai ricavi dell’asset management – pari a 200 Miliardi).
Per l’Italia, dei 5 Trilioni di ricchezza finanziaria, 2,4 sono oggi “gestiti” e, per circa il 70% di provenienza retail.
Data la crescita ininterrotta degli ultimi 20 e la tempesta perfetta degli ultimi due (tra pandemia, tensioni geopolitiche e guerre regionali, inflazione, carestie e cambiamento climatico) c’è da chiedersi quanto questo trend sia replicabile e perché (e in quale modo) un risparmio gestito di successo possa condurci come Paese verso obiettivi di competitività diffusa e benessere collettivo.
In primis, dobbiamo chiederci in cosa costituisca realmente il “successo” del risparmio gestito, al di là della crescita degli asset under management e dei ricavi e utili (margine operativo globale oggi al 38%).
A mio avviso, il successo dell’industria può essere tale a due condizioni: da un lato, se definisce e realizza una strategic asset allocation ottimale, a livello macro e micro-fondata, dato un set di obiettivi economici-finanziari; ma, allo stesso tempo, se a questi vengono aggiunti anche “traguardi” sociali e ambientali, pena la non sostenibilità.
Non derivano forse molti dei citati “cigni neri” da una eccesiva enfasi sul ritorno finanziario di breve periodo?
A discapito dell’inclusione sociale e della stabilità climatica?
Riguardo la prima delle condizioni poste, da un punto di vista di strategic asset allocation, circa il 30% dei 2,4 Trilioni (dati Assogestioni Giugno 2022) è allocato su investimenti equity che nel lungo periodo offrono rendimenti superiori e, anche nel breve, maggiore difesa anti-inflattiva.
Contribuiscono inoltre all’incremento della produttività dell’economia di riferimento e alla sua stabilità economico-finanziaria (all’opposto del debito).
Tale quota appare limitata rispetto al 40-60% suggerita dall’accademia, e ancor di più se si considerano i 5 Trilioni complessivi, di cui circa 2 mantenuti come liquidità sui conti correnti bancari e buoni postali infruttiferi.
Mentre meno del 25% viene vestito in equity (in Italia e all’estero ed includendo le partecipazioni nella propria azienda delle famiglie imprenditoriali).
Come conseguenza, le nostre PMI fanno oggi impresa con circa il 17% di capitale proprio, contro il 40% degli altri Paesi UE e il 70% degli Stati Uniti e Inghilterra, ricorrendo per il rimanente a debito bancario.
Il vero “peso” dell’equity Italia in Italia e all’estero risulta invece essere inferiore al 25%, e include le partecipazioni nella propria azienda delle famiglie imprenditoriali: circa 20 Miliardi l’equity investito in PIR cosiddetti ordinari e appena 1,8 in PIR cosiddetti Alternative (con quota rilevante di investimenti a là private equity in aziende e asset illiquidi – anche ricomprendendo la quota di debito che è PIR eligible).
I Fondi Chiusi sono appena pari a 80 Miliardi (l’1,6% dei € 5 T.ni) e principalmente sottoscritti dagli investitori Istituzionali (che gestiscono oltre 900 Miliardi – quindi con fondi chiusi investiti per un massimo dell’8% circa, rispetto a benchmark internazionali del 20-40%).
In sintesi, come Italiani siamo parecchio male investiti – soggetti alla underperformance relativa dei diversi mercati quando le cose vanno bene; e ai rischi di coda del debito e delle Borse, quando le cose vanno male – e alla certa erosione del potere d’acquisto della liquidità in presenza di forte inflazione.
Un’ipotetica riallocazione della ricchezza degli Italiani con una quota dell’equity (sui 5 Trilioni complessivi) pari al 40-60%, di cui una buona metà (circa 1-1,5 Trilioni) dedicata ai private markets, offrirebbe l’opportunità di rendimenti maggiori nel lungo periodo e difesa del potere d’acquisto nel breve.
Offrirebbe soprattutto, se una quota importante di questo equity fosse reinvestito in Italia – in R&D e infrastrutture, nel consolidamento delle PMI e rigenerazione urbana delle città – maggiore competitività e attrattività, e un posizionamento sulla frontiera efficiente, come cittadini oltre che investitori.
Riguardo la seconda condizione, in Italia circa 431,4 Miliardi di investimenti sono oggi classificati quali “sostenibili” ex art. 8 e 9 della SFDR (ed al lordo di eventuali effetti di greenwashing) – circa il 9% della ricchezza complessiva ed il 37% di quella gestita.
Numeri importanti ma ancora insufficienti rispetto alla stima dei 100-150 Trilioni di Euro richiesti per finanziare la transizione globale e la cui efficacia nel cambiare le scelte di imprese e città rimane (specie per la quota d’investimento in debito o equity di aziende quotate – data la maggior difficoltà nel guidare la governance) ancora in larga parte da verificare.
Se gli Italiani investono male, e ancor poco “sostenibilmente”, ne soffrono come investitori e ne soffre anche il Paese.
E un Paese che non investe, portando le proprie ricchezze finanziarie altrove, si ritorce sui cittadini consumatori-lavoratori che rimangono.
La vera sfida del risparmio gestito in Italia riguarda questa trasformazione epocale degli investimenti: più equity, più private markets e più investimenti ESG.
In tempi di tempesta perfetta non è sfida da poco, ma è il momento giusto per provarci davvero.