CHRISTINE DE PIZAN - DALLA PARTE DELLE DONNE. GIA` NEL TRE-QUATTROCENTO...

Recensione a cura di Alessandro Zambruno Christine De Pizan, una delle prime scrittrici per professione, a cavallo di Tre e Quattrocento, operò nella corte francese. LA CITTA` DELLE DAME.

CHRISTINE DE PIZAN - DALLA PARTE DELLE DONNE. GIA` NEL TRE-QUATTROCENTO...

Con il suo LA CITTA` DELLE DAME, si propose di rispondere ai preconcetti sull’universo femminile caratteristici del suo tempo, nonostante la dirompenza del pensiero dantesco e il consolidamento della lirica amorosa sotto l’egida petrarchesca.

Nel capitolo XIII della Vita Nova Dante viene a sapere della morte del padre di Beatrice. Si reca dunque a casa dell’amata per sincerarsi delle sue condizioni con la speranza di poterla consolare. Assistiamo così ad uno spaccato di vita rivelatore. Come voleva l’usanza, infatti, era compito delle donne predisporre il funerale e il compianto, mentre gli uomini attendevano all’esterno della casa.

Dante non può quindi vedere Beatrice. Sente però alcune donne che, uscendo dalla casa, commentano tra di loro il dolore e la disperazione in cui è caduta la giovane. Dante non riesce a trattenere le lacrime e cerca di celare il proprio pianto, ma viene rimproverato dalle donne. “Lascia pianger a noi e triste andar” diranno nel sonetto conclusivo.

La società medievale, infatti, era regolata dalla convinzione che uomini e donne dovessero attendere a mansioni differenti e i compiti tradizionalmente femminili non erano certo meno importanti degli affari maschili. Salvo eccezioni, non erano ammesse infrazioni della propria sfera di competenza. Perciò le donne non esitano a rimproverare la partecipazione emotiva di Dante. In altre parole, non è affar suo.

Del resto nella Vita Nova le donne spesso assumono un piglio deciso, nonché materno, nei confronti di un Dante confuso, insicuro e fragile. Le donne che possiedono “intelletto d’amore” non esitano, d’altronde, a deridere la sua condizione e i suoi errori. In quanto donne capiscono ciò che a Dante sfugge.

La poesia stilnovista ha così sublimato la figura femminile. Non solo l’ha identificata come angelo, come medium tra il mondo terreno e quello divino, ma l’ha investita delle più nobili virtù. La donna non è più sottomessa all’uomo, semmai il contrario. Nella poesia cortese e trobadorica, nata cioè all’interno delle corti regie e imperiali (si pensi alla scuola siciliana sostenuta dallo stesso Federico II), il poeta instaurava con l’amata un rapporto di vassallaggio, puramente laico. Era al tempo stesso un’esaltazione del sistema feudale e imperiale. Nel contesto comunale, come poteva esserlo la Firenze del Duecento, le premesse cortesi vengono meno e Dante, con i sodali stilnovisti, cambierà prospettiva inserendo il rapporto uomo-donna all’interno di uno scenario mistico e spirituale.

Letteratura, certo. Pure speculazioni e raffinatezze intellettuali. Come letteratura sarà la volubilità dell’Angelica ariostesca, o il valore guerriero della bella Bradamante che addirittura, in un sovvertimento del topos cavalleresco, salverà il proprio amato Ruggiero. Eppure, nonostante la dirompenza del pensiero dantesco e il consolidamento della lirica amorosa sotto l’egida petrarchesca, fino a farsi maniera, sopravvisse ancora per secoli l’immagine della donna come essere vizioso, incline alla malinconia e all’intemperanza. Basti pensare che anche Boccaccio, che pure si formò sulle orme dantesche, raccolse in una sua opera, il De mulieribus claris, ritratti di celebri donne dell’antichità e del mito con l’intento moraleggiante di elogiare virtù e ammonire i vizi. Del resto, certa libellistica era ampiamente diffusa e non solo in ambienti ecclesiastici.

Proprio contro questo genere di produzione libraria si scaglierà Christine de Pizan, una delle prime scrittrici per professione. Vissuta a cavallo di Tre e Quattrocento, Christine operò nella corte francese. Sposata ad un notaio di corte restò, ancora giovane, vedova e con il peso di una famiglia alle spalle da mantenere, costretta a ritagliarsi un suo ruolo a corte. Sfruttando l’insolita educazione letteraria che il padre, noto medico del tempo, le aveva impartito, Christine divenne una scrittrice di successo arrivando persino a dirigere una bottega libraria. Pubblicò non solo poesie ma anche trattati sugli argomenti più disparati, spesso su commissione. Scrisse addirittura di tattica militare e politica. In molti suoi scritti, inoltre, polemizzò apertamente contro le inefficienze di corte raccontando delle proprie vicissitudini.

In una delle sue opere più celebri, La Città delle Dame, Christine si propone di rispondere ai preconcetti sull’universo femminile. Immaginando un’utopica città popolata da celebri eroine del passato, vuole indicare diversi esempi del contributo che le donne possono offrire alla società. Pone, inoltre, l’accento su questioni per l’epoca inedite (e in parte ancora oggi irrisolte) come la necessità di una legge adeguata a punire gli stupri, o l’opportunità di un’istruzione femminile alla pari di quella maschile. Finché le sarà negata un’istruzione, argomenta Christine, la donna sarà sempre inferiore all’uomo. Inferiorità, aggiunge, che è solo culturale e non naturale.

Forse, dopotutto, non è necessario sovraccaricare la donna di virtù angeliche o trasmutarla in essere sovrumano. Considerarla alla pari dell’uomo, come metà parallela dell’umanità, è sicuramente più utile e doveroso.