Alla vigilia di guerre monetarie?
Il rischio che il mondo precipiti in pericolosi scenari di guerre valutarie diventa sempre più concreto.
Ecco perché bisogna continuare ad insistere sulla necessità di un accordo strategico tra i governi e i più importanti attori dell’economia per riformare la finanza ed il sistema monetario internazionale. Secondo noi, una nuova Bretton Woods è sempre più urgente e necessaria.
Non siamo dei pessimisti inveterati, ma i segnali di pericolo sono ormai tanti.
Gli Stati Uniti hanno appena deciso di procrastinare al 19 maggio prossimo ogni decisione riguardante l’ammontare del debito pubblico e dei conseguenti tagli al bilancio statale. Nel frattempo si permette all’amministrazione di funzionare sfondando in modo incontrollato il tetto del debito, che è di 14.400 miliardi di dollari.
Ciò vuol dire che di fatto c’è una forte immissione di nuova liquidità nel sistema da parte della Federal Reserve. Tale operazione certamente ferma l’immediato default dell’economia americana, però in seguito si dovrà far fronte alle possibili spirali inflazionistiche.
Per il resto del mondo, invece, i nuovi dollari potranno provocare una destabilizzazione monetaria, il rischio di inflazione, maggiori flussi di capitali speculativi, acquisizioni pilotate di importanti risorse, ecc. Alla luce di questi rischi molti paesi emergenti, a partire dal Brasile, stanno cercando di porre delle barriere a questi movimenti incontrollati di valuta.
Con la creazione di ulteriore debito e di maggiore liquidità la Fed cerca anche di “pilotare” la discesa del valore del dollaro nei confronti delle altre monete e dell’euro in particolare. Lo fa con l’intento di rendere i prodotti americani più competitivi e strappare fette di mercato a beneficio dei produttori Usa.
La storia ha già conosciuto simili politiche e le ha chiamate “svalutazione competitive” che hanno generato guerre commerciali. Il problema è che ora non le sta conducendo un piccolo paese come la Grecia, ma gli Usa che sono la prima economia del mondo!
Non è un caso perciò che anche il governo del Giappone abbia appena annunciato ufficialmente una simile strategia. La Banca Centrale di Tokyo intende portare il tasso di inflazione previsto dall’1 al 2% attraverso l’acquisto di nuovi bond e altri titoli emessi dallo Stato. Solo per il 2013 si parla di un “quantitative easing” nipponico equivalente a circa 1.200 miliardi di dollari! Si ricordi che il debito pubblico, in verità largamente in mano ai giapponesi, è già superiore al 240% del Pil.
Anche queste misure mirano ad abbattere il valore dello yen nei confronti delle altre monete. Non solo nei confronti del dollaro e dell’euro ma anche verso lo yuan cinese. A differenza degli anni passati quando la gestione della crisi del debito era però accompagnata da consistenti surplus di esportazioni, nel 2012 il Giappone per la prima volta ha registrato un deficit commerciale globale del 5,8% e del 15,8% nei confronti della Cina. Negli ultimi mesi tale strategia monetaria ha già determinato il deprezzamento dello yen di ben oltre il 10% rispetto al dollaro e all’euro.
Simili politiche, come era prevedibile, stanno scatenando reazioni asimmetriche ovunque. Anche i recenti annunci tedeschi relativi al rimpatrio di una consistente parte delle loro riserve auree possono essere letti in quest’ottica. Recentemente il quotidiano economico Handelsblatt ha riferito che è intenzione di Berlino di passare dall’”oro cartaceo”, cioè quello tenuto nei forzieri della Fed di New York, della Bank of England e della Banque de France, all’”oro fisico” riportandolo in mani tedesche.
Si ricordi che delle 3.400 tonnellate di oro tedesco, il 69% è fuori dai confini della Germania. Quasi la metà è negli Usa. Nei decenni passati ciò era giustificato con il timore di possibili minacce di occupazioni sovietiche. Oggi è più che legittimo volerle riportare a casa. Tale decisione ovviamente, secondo noi, ha anche a che fare con le politiche monetarie attuate dagli Usa nei confronti dell’Europa, nonché con una crescente sfiducia sull’effettivo valore di un dollaro inflazionato.
Infine anche la Cina, che ha sempre cercato di evitare la rivalutazione della sua moneta per poter allargare i propri mercati, sta perseguendo con la classica determinazione cinese l’aumento delle proprie riserve di oro.
La Cina è il primo produttore mondiale di oro con le sue 314 tonnellate annue. Sta comprando però oro sui mercati internazionali perché nell’anno in corso vuole aumentare di ben 500 tonnellate le sue riserve auree. Pechino attualmente ne detiene solo un migliaio di tonnellate. Poca cosa rispetto alle 8.133 degli Usa. Perciò sta lavorando per portare gran parte delle sue riserve dal dollaro all’oro.
Lo scenario con la ricerca di soluzioni locali alle grandi sfide e alle emergenze poste dalla crisi globale e monetaria è sconfortante. Si rischia un ritorno a vecchi egoismi e a pericolosi giochi geopolitici di stampo nazionalista e protezionista, con un arretramento rispetto agli equilibri mondiali faticosamente raggiunti nell’ultimo sessantennio.
Scritto per Ifanews da Mario Lettieri, Sottosegretario all’Economia del governo Prodi e Paolo Raimondi, Economista