41 bis? SI!
Torino, 7 marzo 2022. Di Chiara Zarcone, avvocato, Foro di Torino. Cultore della materia in diritto penale presso l'Università degli studi di Torino.
Tante voci si sono levate, più volte a dire il vero negli ultimi anni, in merito alla legittimità o meno dell'art. 41 bis o.p. (n.d.a. ordinamento penitenziario) e non si può tacere come e quanto sia attuale questa tematica alla luce del cosiddetto "caso Cospito".
Lungi dall'autore voler entrare nel merito intrinseco della vicenda Cospito con tutti i risvolti che ne sono logica conseguenza - il fenomeno anarchico ha radici storiche ben precise che non devono essere banalizzate e svilite dalla devastazione delle manifestazioni di Torino - è però opportuna sul tema una riflessione di carattere giuridico.
Quando ci si confronta con le norme giuridiche è sempre necessario indagare sul processo storico, economico e sociale che le ha portate alla vita.
L' art. 41 bis della legge di ordinamento penitenziario, venne pensata con allo scopo di gestire le situazioni di emergenza interne al carcere.
Venne dunque inserito all’interno della Legge Gozzini - siamo nel 1975 -. Successivamente al "periodo stragista"- n.d.a. stragi di Capaci e di via D’Amelio - si pensò di estendere la portata dell'art. 41 bis consentendo al Ministro della Giustizia di sospendere per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, le regole di trattamento e gli istituti dell'ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti facenti parte dell'organizzazione criminale mafiosa.
Il regime detentivo speciale ex art. 41 bis venne applicato sin da subito, addirittura nella notte del 19 luglio 1992 -n.d.a. giorno della Strage di via D' Amelio.
Il Ministro della giustizia firmò i primi 50 decreti di attuazione della norma e i boss mafiosi detenuti in carcere a Palermo vennero prelevati e immediatamente trasportati nell'istituto di massima sicurezza dell'isola di Pianosa.
Il regime di cui al 41 bis viene dunque alla luce quale provvedimento a carattere eccezionale teso a far fronte all’immanenza del pericolo mafioso, anche se, proprio Giovanni Falcone si era interrogato spesso sulla natura e sulla reale sussistenza della "emergenzialità" di un fenomeno così radicato e tralatizio che trova le sue origini nell' Italia pre-unitaria: "Mi domando, infatti, sulla base di quali presupposti può essere considerato emergenza un fenomeno criminale che ha origine anteriore alla nascita dello Stato unitario, che ha resistito alle commissioni anitmafia e che è divenuto, negli anni, un fattore sempre più destabilizzante della democrazia” (Giovanni Falcone, La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia, Milano, Bur saggi, 2010).
L’art. 41 bis nella sua originaria formulazione prevedeva esclusivamente la possibilità di sospendere l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge.
Tale sostanziale indeterminatezza determinò ben presto l'intervento della Corte Costituzionale con la conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale del regime detentivo speciale nella misura in cui non venne ritenuto conforme al fondamentale principio di legalità e al principio della rieducazione e dell’umanità della pena, costituzionalmente previsti e protetti.
Con la sentenza del 28 luglio 1993 n. 349 la Corte Costituzionale individuò i limiti esterni che l’Amministrazione penitenziaria non avrebbe dovuto oltrepassare disponendo il regime detentivo speciale e, in conformità a quanto previsto dall'art. 13 della Costituzione (“la tutela costituzionale dei diritti fondamentali dell’uomo, ed in particolare la garanzia dell’inviolabilità della libertà personale anche per chi è sottoposto a legittime restrizioni di libertà personale”) il Supremo Consesso negò la possibilità di incidere, con un provvedimento di tipo amministrativo, sullo spazio di libertà residua del detenuto.
Solo nel 2002, l’art. 41 bis la misura venne trasformata: da strumento emergenziale divenne strumento permanente di prevenzione speciale, nel rispetto dei dettami imposti in primis dalla nostra Costituzione deinde delle pronunce della Suprema Corte.
E' necessaria una precisazione dalla quale non è possibile prescindere: sovente si ricollega il 41 bis ai reati di associazione mafiosa.
Questa corrispondenza è vera solo in parte poiché seppure è vero che la maggioranza di detenuti in regime di 41 bis sono mafiosi, altrettanti sono i casi nei quali è stata applicata la misura anche per reati di matrice terroristica.
Proprio per questi casi, nella recente cronaca (n.d.a. si veda il caso Cospito), abbiamo assistito a manifestazioni violente di persone che chiedevano a gran voce l'eliminazione di questa norma dal nostro ordinamento perchè, a detta loro, non conforme ai principi sanciti dalla nostra Carta Costituzionale e dalle Convenzioni Internazionali.
In particolare tali voci di protesta si fanno portatrici dell'idea secondo la quale "L'isolamento carcerario é internazionalmente riconosciuto come una forma di tortura. Un regime che nega l'uso della parola, lo studio, la lettura, la scrittura, la socialità, l'affettività, non può che definirsi un regime di tortura, lenta, continua, sistematica, fino all'annientamento psico-fisico, alla morte o alla resa"- n.d.a. Luigia Di Biase di "Soccorso rosso proletario" - .
A modestissimo parere di chi scrive, parere peraltro suffragato dal Supremo Consesso che più volte è intervenuto in merito, la compressione dei diritti di alcune tipologie di detenuti si rende necessaria nella misura in cui vi sia la doverosa esigenza di tutelare la collettività e l'ancor più doverosa urgenza di arginare il fenomeno mafioso (nonchè altri tipi di criminalità), purché venga rispettato il principio rieducativo del carcere e venga offerta ai condannati una seconda possibilità, anche attraverso un accesso più agevolato all’istruzione.
Essendo il diritto positivo una creazione umana, non è perfetto ed è sempre possibile una revisione, in senso maggiormente garantista, di tutti gli istituti.
Cauto deve essere il passo di chi si avventura nella tematica della "compressione" dei diritti sanciti dalla nostra Costituzione la quale, nel prevedere i diritti e doveri dei cittadini, ne specifica anche i limiti, operando dunque un bilanciamento tra interessi costituzionalmente rilevanti.
Il bilanciamento in questione deve essere fatto fra salvaguardia dei diritti dei detenuti e sicurezza nazionale.
L'esito di questo bilancio, per fortuna, è scontato poichè, non dobbiamo ignorare che l' applicazione del regime in questione è da sempre subordinata al fatto ci si trovi innanzi a soggetti a carico dei quali siano stati rintracciati elementi da cui discernere la sussistenza dei collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva.
Punto fermo, che permette quindi, di non rintracciare nell’art. 41 bis ord. pen., una violazione costituzionale degli articoli 13 e 27 Cost., è rappresentato in primo luogo dal fatto che l’amministrazione penitenziaria nell’adottare provvedimenti in ordine alle modalità di esecuzione della detenzione non deve mai oltrepassare "il sacrificio della libertà personale già potenzialmente imposto al detenuto con la sentenza di condanna", restando simili provvedimenti sempre soggetti ai limiti ed alle garanzie previste dalla Costituzione in ordine al divieto di ogni violenza fisica e morale (art. 13, IV comma), o di trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27, III comma).
A voler dare una risposta ai "polemici di professione" che invocano una non conformità del regime di cui all'art 41 bis con i principi di diritto internazionale, si deve precisare come in numerose pronunce della giurisprudenza europea (ex multis C. eur. dir. uomo, ric. n. 37648/02, 1 settembre 2015) a prevalere è sempre l’esigenza di difesa sociale che giustifica l’esistenza e l' applicazione del carcere differenziato, atteso che lo scopo ultimo di tale regime, è - si ribadisce - quello di limitare al massimo i contatti dei detenuti con il mondo esterno sin tanto che sussiste il pericolo della permanenza del vincolo associativo con l’organizzazione criminale di appartenenza.
L'art. 41 bis non deve essere cristallizzato fra le norme del nostro ordinamento quale strumento perfetto, anzi, proprio per la delicatezza della posizione che occupa, deve evolversi nell'ottica di una maggiore efficacia.
Si potrebbe, ad esempio, certamente pensare di introdurre un regime detentivo speciale "ad intensità decrescente" - ipotesi peraltro ventilata da diversi studiosi del diritto, si veda fra tutti Della Bella - con un riduzione delle limitazioni imposte in modo da "garantire un minimo di progressività nel ritorno alla vita sociale del detenuto", giungendo così ad un buon compromesso, non facile nella sua attuazione, tra tutela dei diritti individuali ed esigenze di prevenzione.
Sarebbe opportuno ripensare non solo ai presupposti che vedono gli internati sottoposti alle regole del carcere duro, ma anche e sopratutto ad un sistema che permetta a questi, seppur realmente pericolosi, di avere quella seconda opportunità attraverso la misura di sicurezza detentiva, che permetta loro di reinserirsi e godere dei benefici che l’ordinamento penitenziario prevede.
Non può e non deve ritenersi esistente una presunzione di non rieducabilità del soggetto; deve invece sempre essergli garantita una seconda possibilità.